Una vita sul porto
“Era il ‘45, avevo
17 anni e mi trovavo nel magazzino di mio nonno, in Venezia, nel quale una
bomba aveva, a suo tempo, provocato uno sconquasso. Io e mio zio stavamo
aiutando mio nonno a raccogliere pallini di piombo, di quelli da cartucce,
originariamente raccolti in sacchi e sacchetti ed al momento sparpagliati da
tutte le parti. Nel pomeriggio si presentò un vecchio portuale che chiese a me
e mio zio se avevamo voglia di lavorare. Io accettai e fui accompagnato
all’ufficio reclutamento dell’allora Consorzio del Porto (l’avvento della
Compagnia Lavoratori Portuali risale al 1947), sul Viale Caprera, gestito un
tipo soprannominato naso peloso”.
Esordisce così Oreste Volpi nel raccontare la propria storia di portuale oramai
in pensione da ben più di venticinque anni. L’indomani mattina Oreste era già
al pezzo a Barriera, a bordo del granturcaio
un bastimento di granturco sfuso, per l’appunto. L’esordio nel campo del lavoro
non a coffeggiare”
come specifica Oreste, da coffa, com’era definito il corbello); i ragazzi
riempivano la coffa e la svuotavano nel sacco che, una volta riempito, veniva legato
e caricato sul bancale sbarcato, a sua volta, con quello che Oreste definisce
il vinci, un antico sistema di sbarco
a carrucole e cavi (bigo/bigo di forza) comandato da verricelli.
poteva rivelarsi più faticoso. Lo sbarco, infatti, avveniva tramite
corbelli e balle di juta (“
All’epoca, era
piuttosto comune affidare il proprio lavoro a terzi. Chi per effettiva
necessità fisica, chi per scarso senso del dovere, era solito condividere il
proprio turno di lavoro con qualche conoscente, magari disoccupato, che alla
fine della giornata retribuiva in maniera più o meno adeguata. “A me capitava
quando andavo ai ballini del grano,
al silo.” specifica Oreste “ Era il lavoro più faticoso che io ricordi e
proprio per questo avevamo una doppia retribuzione. Si trasportavano i ballini di grano dalle bocchette dei
silos ai vagoni ed il cottimo era calcolato sia in base al numero di pezzi
trasportati che alla distanza della bocchetta dal luogo di scarico. Il turno di
otto ore era davvero pesante, specialmente quando capitavano le bocchette più
lontane, ed io mi avvalevo della collaborazione di un conoscente disoccupato,
un certo Mario: facevamo metà turno a testa e, da buoni fratelli, dividevamo la
paga al 50%”. Ben diverso è il discorso per le squadre che facevano il famoso
“conto”. La chiamata era effettuata a squadre di 19 persone ciascuna (poi
ridotte a 15, ad 11 fino a ritornare alla chiamata singola, dei giorni nostri -
ndr): indipendentemente dal lavoro da svolgere veniva sempre ingaggiata una
squadra o anche di più, ma sempre squadre, a seconda dell’impegno. A quel
punto, nel caso in cui l’impegno non coinvolgesse tutti quanti, l’atteggiamento
poteva essere di due tipi: le squadre più solidali e volenterose avevano
lavoratori che, nell’arco del turno, si alternavano alle operazioni senza mai,
però abbandonare il luogo di lavoro; altre, fortunatamente più rare, una volta
stabilito quanto personale era necessario, effettuavano il conto di cui sopra.
“Noi non abbiamo mai fatto il conto” specifica Oreste “ma so di gente che la
mattina si presentava, vedeva quanto personale era necessario e poi faceva il
conto, proprio come i bimbi che giocano a rimpiattino. Se la squadra era di 15
ed il lavoro era per dieci, i cinque estratti se ne andavano per i fatti loro abbandonando
i colleghi”.
Tra i lavori
più duri che ha affrontato nella sua carriera di portuale, Oreste ci ricorda lo
sbarco del
sale ai magazzini del monopolio nell’attuale darsena di stazionamento
dei pescherecci, di fronte ai Quattro Mori. “Le navi in porto sbarcavano il
sale sfuso su navicelli che entravano nella darsenetta ed ormeggiavano di
fronte ai magazzini. Noi ci caricavamo i corbelli di sale sul groppone per
svuotarli all’interno del magazzino. La superficie ruvida del fondo del
corbello provocava, sulle spalle, piccole ferite, graffi ed escoriazioni che, a
contatto diretto col sale, bruciavano da darti il buongiorno. A poco serviva
una balla tra le spalle ed il fondo del corbello…”.
Al termine di
un turno a sbarcare corbelli di carbone, nero di fuliggine da capo a piedi,
Oreste ricorda di essersi recato in Piazza Grande a prendere il filibusse; aveva mostrato all’autista il
tesserino dell’abbonamento inducendolo a farlo accomodare dalle porte anteriori
affinché, sporco com’era, non interferisse con gli altri passeggeri. “Mi sembrò
una delicatezza che però non fu apprezzata: mugugni ed occhiatacce la dicevano
lunga su come la pensassero i miei compagni di viaggio. A casa, mia madre era
costretta a togliermi pazientemente i residui del carbone dalle ciglia con
l’olio”.
Nella storia
di Oreste non mancano episodi divertenti. “A bordo di una nave americana,”
racconta “raddoppiammo il turno e non ci fu tempo per andare a casa a mangiare.
Stavamo sbarcando derrate alimentari, la maggior parte pre-cotte, per il Camp Derby, ed uno di noi pensò di
organizzare un desco di fortuna: una cassa grande, quattro cassette per
sgabello e poi un po’ di chicken,
gamberetti, il pane a cassetta ed il pranzo era pronto. La guardia, in cima
alla scaletta, si accorse dell’improvvisato banchetto e ne informò l’ufficiale
americano dell’emmepi. Thomas, un negro alto due metri e grosso come un armadio
si avvicinò minacciosamente a noi che, intimoriti, ci eravamo fatti
piccini-piccini. A sorpresa l’ufficiale finì per arrangiare un panchetto ed
unirsi all’estemporanea libagione con nostra grande soddisfazione ed
altrettanto scorno per la guardia spiona”.
“A bordo di un
vaporetto spagnolo e dovevamo sbarcare casse di whisky. Manovravo la mancinetta
ed i colleghi in stiva mi chiesero di sbarcare il muletto che, una volta a
terra, sparì dietro i capannoni per riapparire dopo pochi minuti. Lo imbarcai
di nuovo ed il lavoro proseguì per alcune decine di minuti
al termine dei quali
mi fu chiesto nuovamente di sbarcare il mezzo che seguì la stessa trafila di
una mezz’oretta prima. L’episodio si ripeté ancora finché apparve il caporale lamentandosi
per la scarsa resa del turno. Riprendemmo a lavorare e terminammo il turno come
mille altre volte. Ai bagni, fui avvicinato da un compagno che mi regalò una
bottiglia del whisky oggetto dello sbarco di poco prima e fu allora che
compresi il significato di tutto l’andirivieni del muletto. Il mezzo in questione
aveva uno spazio vuoto, dietro l’alloggio della batteria, che fu riempito per
diverse volte con le bottiglie e prontamente svuotato in macchina di qualche
collega o chissà dove”.
Si susseguono
gli episodi ed Oreste non si stanca di raccontare. “Di notte sul ‘Presidente’
(la vecchia President Line della Marina Mercantile USA - ndr) imbarcavamo
biciclette Bianchi. Arrivavano con il manubrio parallelo alla canna ed i pedali
montati verso l’interno, per occupare il minor spazio possibile. Uno di noi, di
cui taccio il nome, pensò bene di raddrizzare il manubrio ed i pedali ed uscire
tranquillamente dal varco come se niente fosse. La fece franca e non suscitò
neanche il minimo sospetto nel finanziere di turno”.
Si racconta di
travicelli svuotati e riempiti di sigarette di contrabbando acquistate a bordo.
“Il tronchetto svuotato e riempito di sigarette veniva legato alla canna della
bicicletta e giustificato, col finanziere al varco, come legna da ardere per il
caminetto”.
“I vapori
russi erano sempre pieni di donne, forse un passatempo per l’equipaggio, che
impazzivano per la calze di nylon. Ne comprai un paio e le consegnai ad una di
queste ‘passeggere’: in cambio ho ricevuto un rublo, una moneta dalle
dimensioni generose ma dal valore irrisorio, ed un colbacco, magari quello
utile per le fredde nottate invernali”.
Oreste ha
fatto parte delle squadre 19bis, poi diventata 20 e 29 fino all’ultima, la 30 della
quale fece parte su richiesta degli altri componenti. “La 30 era la squadra che
faceva più cottimo di tutte ed io mi ci accostai volentieri”. La paga veniva
calcolato in base alla resa ed al cottimo. La resa era un minimo prestabilito
di merce necessario a rientrare nelle medie di sbarco laddove il cottimo era
tutto ciò che ogni squadra riusciva a sbarcare o imbarcare oltre la resa. Alla
fine del mese chi faceva più cottimo si trovava in busta paga qualche soldo in
più.
È famoso il
mercato delle piastre (twist-lock) e
degli schiavi (grilli) per il
rizzaggio dei contenitori a bordo ed Oreste racconta di scene in cui il furbetto
di turno si procurava detto materiale che andava a rivendere ad un noto ricettatore.
Gli arnesi sottratti venivano poi a mancare a completamento delle operazioni ed
il solito malandrino chiedeva all’agenzia l’autorizzazione (ed i soldi) per
andare a comprarne dei nuovi. Ottenuto il benestare (ed i soldi) era facile
recarsi dal ricettatore di poco prima e riscattare quanto fornito previa
restituzione della somma poco prima riscossa. Al termine del maneggìo, l’intrallazzone si trovava in tasca i
soldi del ricettatore ed il disavanzo di quelli dell’agente marittimo.
Al di là degli
episodi, nel racconto di Oreste emerge l’importanza della solidarietà ed
amicizia tra i componenti della medesima squadra, in primis e dei compagni di
lavoro in genere. Si coglie nettamente la diversità del ruolo che l’individuo
assume nella vita di tutti giorni e quello di un lavoratore nel pieno
svolgimento della propria mansione; l’amicizia poi, intendendo il sentimento
più puro e disinteressato, si pone su un piano superiore, al di sopra di ogni
altro aspetto della vita.
L’ultimo
particolare che Oreste ci tiene a sottolineare che, in 37 anni di lavoro ha usufruito
di “ben” otto giorni di mutua durante i quali ho ricevuto addirittura tre
controlli sanitari. “Andai alla Mutua, in Via Ernesto Rossi, per chiedere
spiegazioni sul loro comportamento. Chiesi udienza al responsabile che scoprii
essere un amico d’infanzia. Da ragazzi lo chiamavamo penicillina a causa del fisico allampanato. Si giustificò dicendo
che coloro che erano usi alla sospensione del lavoro per malattia erano considerati
ammalati cronici mentre quelli occasionali erano tenuti maggiormente d’occhio.
In seguito sono andato a lavorare anche con la febbre!”