A scuola di cucito: impara l’arte e…
Ad
una voce, Riri e Lia, parlano a ruota libera del comune esordio nel campo del
lavoro, in una sartoria artigianale, già in epoca pressoché scolare: “Avevamo
appena finito la quinta elementare, che i nostri genitori, rispecchiando le
esigenze dell’epoca, decisero in vece nostra che era l’ora d’imparare un
mestiere”. È così che lo zio di Lia mette a disposizione dell
e novelle
apprendiste il proprio laboratorio di sartoria da uomo, a conduzione del tutto
familiare, la cui insegna, semplicemente “Emilio”, dalle dimensioni
assolutamente contenute, la diceva lunga sull’inutilità, per l’epoca,
dell’apporto pubblicitario. Stiamo parlando degli inizi degli anni quaranta
allorché le due bambine iniziano a tenere l’ago tra le mani a cui è rimasto
appiccicato per tutta una vita. “La bottega si trovava sull’angolo tra Via Duca
Cosimo e Via dei Bagni” continua Riri “e la mancanza di energia elettrica ci
costringeva a cucire alla scarsa luce del lume a petrolio: ogni tanto, per il
calore, scoppiava il cilindro di vetro mentre lo stoppino era spesso sostituito
da strisce di tessuto, avanzi del nostro lavoro. Durante il periodo della
guerra, quando veniva scuro, dovevamo applicare stracci scuri alle imposte
della serranda, per poter continuare a lavorare senza diventare un bersaglio
dei ricognitori aerei.”
Agli inizi
della loro carriera, le sartine cucivano un po’ per tutto il paese tuttavia
esse ricordano come la bottega fosse frequentata dai signori dell’epoca, proprietari
delle numerose villette della zona. Ai vestiti costruiti di sana pianta, per i
più danarosi, si alternavano i più classici rimediotti: “Qualcuno ci portava il
cappotto e ci chiedeva se era possibile rigirarlo, quindi noi si disfaceva
completamente il capo, badando bene a recuperare la maggior parte del filo
originale, e si rifaceva, identico, ma con la stoffa a rovescio.” Il recupero
del filo da cucito originale aveva un duplice scopo: da una parte consentiva di
risparmiare sui materiali, di per se scarsi, e dall’altra il filo nuovo poteva
non avere una corrispondenza cromatica totale con il capo da cucire a discapito
della riuscita della ricostruzione. E le toppe: sovente, specialmente ai
ragazzi, si rattoppavano i
calzoni consumati sul sedere e chi era costretto ad indossarli camminava rasentando il muro per evitare il dileggio dei compagni, pronti ad attribuirgli il poco dignitoso soprannome di “pezze-ar-culo”. Per comprendere quanto poco fosse lo scarto di materiale, all’epoca, basti pensare che era necessario un anno intero per riempire un sacchetto di stracci per il cenciaio, mentre oggi è diventato così facile disfarsi degli abiti vecchi…
“Spesso mio zio ci consentiva di operare le consegne a domicilio dei lavori ultimati: durante il tragitto pregustavamo una mancia che il destinatario avrebbe potuto elargire, soprattutto in ragione della nostra giovane età, sennonché veniva spesso ad aprire la servitù ‘poi passa il padrone a bottega’, dicevano ed allora, addio mancia!”. Ricordano i vestiti confezionati per Di Rosa, il campione di scherma, per i quali si prestava la maggiore attenzione alla manica destra della giacca, quella che doveva ospitare l’arto maggiormente sviluppato dello sportivo.
calzoni consumati sul sedere e chi era costretto ad indossarli camminava rasentando il muro per evitare il dileggio dei compagni, pronti ad attribuirgli il poco dignitoso soprannome di “pezze-ar-culo”. Per comprendere quanto poco fosse lo scarto di materiale, all’epoca, basti pensare che era necessario un anno intero per riempire un sacchetto di stracci per il cenciaio, mentre oggi è diventato così facile disfarsi degli abiti vecchi…
“Spesso mio zio ci consentiva di operare le consegne a domicilio dei lavori ultimati: durante il tragitto pregustavamo una mancia che il destinatario avrebbe potuto elargire, soprattutto in ragione della nostra giovane età, sennonché veniva spesso ad aprire la servitù ‘poi passa il padrone a bottega’, dicevano ed allora, addio mancia!”. Ricordano i vestiti confezionati per Di Rosa, il campione di scherma, per i quali si prestava la maggiore attenzione alla manica destra della giacca, quella che doveva ospitare l’arto maggiormente sviluppato dello sportivo.
“Nel ’45, dopo
un lungo periodo d’oscuramento, con l’avvento degli Americani, lo zio riaprì la
bottega e noi ritornammo all’attività sospesa. Gli americani avevano allestito
il campo base in Bandinella, al didietro dell’attuale edicola, ed il paese
pullulava di divise a stelle e strisce che, giocoforza, usufruivano dei nostri
servigi. E lì dai: scorcia i calzoni, cuci la piega, stringi le camicie. “Gli
Americani adoravano le camicie attillatissime e,” dice Riri “visto che la
natura dei tessuti dell’epoca non consentiva di mantenere la piega delle gambe
dei pantaloni, ci facevano risolvere il problema con una cucitura mediana per quanto
era lunga ogni gamba.” Per quattro o cinque anni, i soldati d’oltreoceano hanno
continuato a frequentare il negozio pagando un dollaro, corrispondente a circa
cento lire dell’epoca (uno sproposito), per tutti i lavoretti più semplici.
All’unisono
menzionano il nome di Alvaro (o chissà come si chiamava), un soldato di colore
particolarmente ambizioso che frequentava il laboratorio al di là
dell’effettiva necessità di usufruirne delle prestazioni. “Il militare parlava
abbastanza correntemente l’italiano,” continuano alternandosi nel racconto dell’aneddoto
“si sedeva accanto allo zio per conversare, poi prendeva una giacca a quadri
dall’appendiabiti, un cappello tipo Borsalino, il bastone e si esibiva in bottega
nella sua personalissima sfilata provocando in noi risate grasse.”
Con l’avvento
degli americani, i civili approfittavano di materiali che saltuariamente essi
elargivano e così bastava una coperta da campo per scatenare la fantasia delle
sartine che, in men che non si dica, ne ricavavano un caldo cappotto. C’erano
solo alcuni capi d’abbigliamento che mettevano in difficoltà le nostre artiste:
la giacca sahariana, con tutti i suoi risvolti e le tasche con le pence, ed i pantaloni alla cavallerizza
la cui bombatura sulle cosce era di difficile preparazione. “Ricordo di una
volta in cui eravamo particolarmente soddisfatte per la realizzazione di un
vestito da sposo, ma l’imprevisto era in agguato: chissà come, stavamo
ammirando la nostra creazione quando ci rendemmo conto di un piccolo taglio
alla sommità di una manica. In bottega eravamo tutti disperati e fummo
costretti a rivolgerci alle suore, famose per la pazienza certosina
nell’operare rammendi pressoché invisibili, che fecero un vero miracolo. La mattina
successiva, lo sposo se ne andò all’altare felice e contento, ignaro del
mancato disastro”.
E la paga?
Poco più di niente! “Si segnavano le ore e le giornate sul foglio di un
calendario per arrivare a riscuotere 30 centesimi o mezza lira che il lunedì,
turno di riposo, come per i barbieri, dilapidavamo in un gelato di crema e
cioccolato”.
“Sulla sera,
la bottega si riempiva di gente a chiacchiera… a veglia, come suole dirsi. Gli
uomini, di ritorno dal lavoro, si raccontavano barzellette, magari sporche, o
facevano battutacce esclusive della loro condizione maschile: noi, dalla nostra
postazione, origliavamo cercando di carpire le storielle tuttavia, in quanto
donne… giovani donne, non ci era concesso partecipare all’intrattenimento”.
L’esperienza d’apprendiste
è servita a far sbocciare, fra le due protagoniste, un’amicizia fino ad allora
limitata alla pura conoscenza, quali abitanti del medesimo paese:
frequentandosi sul lavoro si sono legate da un sentimento che a distanza di
oltre sessant’anni è tutt’altro che scemato. Tempi di amicizia vera, quelli là!
Ermanno Volterrani
16 febbraio 2008