domenica 22 gennaio 2012

Le sartine degli americani

A scuola di cucito: impara l’arte e…

            Ad una voce, Riri e Lia, parlano a ruota libera del comune esordio nel campo del lavoro, in una sartoria artigianale, già in epoca pressoché scolare: “Avevamo appena finito la quinta elementare, che i nostri genitori, rispecchiando le esigenze dell’epoca, decisero in vece nostra che era l’ora d’imparare un mestiere”. È così che lo zio di Lia mette a disposizione dell
e novelle apprendiste il proprio laboratorio di sartoria da uomo, a conduzione del tutto familiare, la cui insegna, semplicemente “Emilio”, dalle dimensioni assolutamente contenute, la diceva lunga sull’inutilità, per l’epoca, dell’apporto pubblicitario. Stiamo parlando degli inizi degli anni quaranta allorché le due bambine iniziano a tenere l’ago tra le mani a cui è rimasto appiccicato per tutta una vita. “La bottega si trovava sull’angolo tra Via Duca Cosimo e Via dei Bagni” continua Riri “e la mancanza di energia elettrica ci costringeva a cucire alla scarsa luce del lume a petrolio: ogni tanto, per il calore, scoppiava il cilindro di vetro mentre lo stoppino era spesso sostituito da strisce di tessuto, avanzi del nostro lavoro. Durante il periodo della guerra, quando veniva scuro, dovevamo applicare stracci scuri alle imposte della serranda, per poter continuare a lavorare senza diventare un bersaglio dei ricognitori aerei.”
Agli inizi della loro carriera, le sartine cucivano un po’ per tutto il paese tuttavia esse ricordano come la bottega fosse frequentata dai signori dell’epoca, proprietari delle numerose villette della zona. Ai vestiti costruiti di sana pianta, per i più danarosi, si alternavano i più classici rimediotti: “Qualcuno ci portava il cappotto e ci chiedeva se era possibile rigirarlo, quindi noi si disfaceva completamente il capo, badando bene a recuperare la maggior parte del filo originale, e si rifaceva, identico, ma con la stoffa a rovescio.” Il recupero del filo da cucito originale aveva un duplice scopo: da una parte consentiva di risparmiare sui materiali, di per se scarsi, e dall’altra il filo nuovo poteva non avere una corrispondenza cromatica totale con il capo da cucire a discapito della riuscita della ricostruzione. E le toppe: sovente, specialmente ai ragazzi, si rattoppavano i
calzoni consumati sul sedere e chi era costretto ad indossarli camminava rasentando il muro per evitare il dileggio dei compagni, pronti ad attribuirgli il poco dignitoso soprannome di “pezze-ar-culo”. Per comprendere quanto poco fosse lo scarto di materiale, all’epoca, basti pensare che era necessario un anno intero per riempire un sacchetto di stracci per il cenciaio, mentre oggi è diventato così facile disfarsi degli abiti vecchi…
“Spesso mio zio ci consentiva di operare le consegne a domicilio dei lavori ultimati: durante il tragitto pregustavamo una mancia che il destinatario avrebbe potuto elargire, soprattutto in ragione della nostra giovane età, sennonché veniva spesso ad aprire la servitù ‘poi passa il padrone a bottega’, dicevano ed allora, addio mancia!”. Ricordano i vestiti confezionati per Di Rosa, il campione di scherma, per i quali si prestava la maggiore attenzione alla manica destra della giacca, quella che doveva ospitare l’arto maggiormente sviluppato dello sportivo.
“Nel ’45, dopo un lungo periodo d’oscuramento, con l’avvento degli Americani, lo zio riaprì la bottega e noi ritornammo all’attività sospesa. Gli americani avevano allestito il campo base in Bandinella, al didietro dell’attuale edicola, ed il paese pullulava di divise a stelle e strisce che, giocoforza, usufruivano dei nostri servigi. E lì dai: scorcia i calzoni, cuci la piega, stringi le camicie. “Gli Americani adoravano le camicie attillatissime e,” dice Riri “visto che la natura dei tessuti dell’epoca non consentiva di mantenere la piega delle gambe dei pantaloni, ci facevano risolvere il problema con una cucitura mediana per quanto era lunga ogni gamba.” Per quattro o cinque anni, i soldati d’oltreoceano hanno continuato a frequentare il negozio pagando un dollaro, corrispondente a circa cento lire dell’epoca (uno sproposito), per tutti i lavoretti più semplici.
All’unisono menzionano il nome di Alvaro (o chissà come si chiamava), un soldato di colore particolarmente ambizioso che frequentava il laboratorio al di là dell’effettiva necessità di usufruirne delle prestazioni. “Il militare parlava abbastanza correntemente l’italiano,” continuano alternandosi nel racconto dell’aneddoto “si sedeva accanto allo zio per conversare, poi prendeva una giacca a quadri dall’appendiabiti, un cappello tipo Borsalino, il bastone e si esibiva in bottega nella sua personalissima sfilata provocando in noi risate grasse.”
Con l’avvento degli americani, i civili approfittavano di materiali che saltuariamente essi elargivano e così bastava una coperta da campo per scatenare la fantasia delle sartine che, in men che non si dica, ne ricavavano un caldo cappotto. C’erano solo alcuni capi d’abbigliamento che mettevano in difficoltà le nostre artiste: la giacca sahariana, con tutti i suoi risvolti e le tasche con le pence, ed i pantaloni alla cavallerizza la cui bombatura sulle cosce era di difficile preparazione. “Ricordo di una volta in cui eravamo particolarmente soddisfatte per la realizzazione di un vestito da sposo, ma l’imprevisto era in agguato: chissà come, stavamo ammirando la nostra creazione quando ci rendemmo conto di un piccolo taglio alla sommità di una manica. In bottega eravamo tutti disperati e fummo costretti a rivolgerci alle suore, famose per la pazienza certosina nell’operare rammendi pressoché invisibili, che fecero un vero miracolo. La mattina successiva, lo sposo se ne andò all’altare felice e contento, ignaro del mancato disastro”.
E la paga? Poco più di niente! “Si segnavano le ore e le giornate sul foglio di un calendario per arrivare a riscuotere 30 centesimi o mezza lira che il lunedì, turno di riposo, come per i barbieri, dilapidavamo in un gelato di crema e cioccolato”.
“Sulla sera, la bottega si riempiva di gente a chiacchiera… a veglia, come suole dirsi. Gli uomini, di ritorno dal lavoro, si raccontavano barzellette, magari sporche, o facevano battutacce esclusive della loro condizione maschile: noi, dalla nostra postazione, origliavamo cercando di carpire le storielle tuttavia, in quanto donne… giovani donne, non ci era concesso partecipare all’intrattenimento”.
L’esperienza d’apprendiste è servita a far sbocciare, fra le due protagoniste, un’amicizia fino ad allora limitata alla pura conoscenza, quali abitanti del medesimo paese: frequentandosi sul lavoro si sono legate da un sentimento che a distanza di oltre sessant’anni è tutt’altro che scemato. Tempi di amicizia vera, quelli là!

Ermanno Volterrani


16 febbraio 2008