venerdì 4 ottobre 2013

La funicolare di Montenero

Compie cento anni la tramvia elettrica che porta i pellegrini al Santuario della Madonna simbolo della città
L'antico fascino della funicolare
Oggi, automatizzata e ammodernata tecnologicamente, sfrutta totalmente l'energia del sole

Un euro di biglietto, acquistato presso il tabaccaio di Piazza delle Carrozze, viene solo in parte inghiottito dall’obliteratrice che, in cambio di un timbro, sblocca automaticamente un tornello in acciaio inossidabile e, quindi l’accesso all’area d’imbarco della funicolare, dove la vetturetta aspetta impaziente di trasportare gli ospiti per i 656 metri del percorso, lungo un paio di lievi curve. Il fresco dei pini, che qua e là ombreggiano la zona, accompagna la salita verso il Santuario della Madonna delle Grazie, e viene saltuariamente rimpiazzato dai giardini delle abitazioni e delle ville che fiancheggiano l’unico binario. A un po’ meno di metà del tragitto, il binario si sdoppia consentendo l’agevole scambio delle due carrozze, quella che scende e quella che sale. Giunti a destinazione, dopo appena quattro minuti di viaggio, attraversata l’uscita, si accede alla ben nota piazza oltre cui già si notano le logge del Santuario, meta del pellegrinaggio dei devoti di tutto il mondo.
L’impressione è quella di aver appena fatto parte del cast di un film ambientato agli inizi del secolo scorso. Fin dal 1906, infatti, la Società Livornese Trazione Elettrica iniziò ad escogitare un sistema di trasporto che consentisse di soddisfare le esigenze del crescente numero di pellegrini di raggiungere celermente il Santuario della Madonna delle Grazie, universalmente nota come Madonna di Montenero, posto a 193 metri sul livello del mare. Il progetto vero è proprio della tramvia funicolare, realizzato dalla Ceretti & Tanfani, si concretizzò nel giugno del 1907 ed i lavori si completarono l’anno successivo per culminare, il 19 agosto, con l’inaugurazione della Funicolare di Montenero, integrata perfettamente con la linea tranviaria per i collegamenti con il centro città. La cerimonia d’inaugurazione della tratta, in pompa magna, avvenne alla presenza dell’allora Sindaco Malenchini, del Prefetto, del Prof. Vigo, del poeta Giovanni Marradi e fu, però, disertata dal Vescovo Sabatino Giani e dall’Abate dei Vallombrosiani don Arsenio Viscardi, evidentemente maldisposti al progresso.
All’epoca si trattava del primo impianto ad azionamento elettrico in Italia ed entrò di diritto a far parte delle attrazioni locali richiamando sul posto numerosi turisti, devoti e non. Le due vetture conformate “a scalone”, dalla carrozzeria in legno, assemblata su una robusta struttura a tralicci in acciaio, erano suddivise in tre scompartimenti con otto sedili ciascuno per un totale di 24 passeggeri seduti, a cui si aggiungevano una decina di persone che trovavano posto, in piedi, sulle piattaforme di servizio aperte: si raggiungeva così una capienza massima di 34 viaggiatori per vettura per ogni senso di marcia. Un potente motore elettrico Thomson-Houston consentiva alla coppia di vagoni di superare un dislivello di 110 metri e pendenze massime fino al 18,4% (la pendenza media supera di poco il 17%). Il binario unico, ad andamento curvilineo, si sdoppiava per una ventina di metri (…e, come detto, si sdoppia tuttora) a metà del percorso onde consentire alle carrozze di scambiarsi agevolmente. Il trillo di campanelli elettrici costituiva l’unico e solo mezzo di comunicazioni tra la stazione a valle e quella a monte mentre, durante il viaggio, le vetture erano assolutamente prive di qualsiasi tipo di comunicazione. Nel percorso originale esisteva una stazione intermedia che, con gli anni, era andata in disuso per essere definitivamente ripristinata in tempi più recenti.
Sul finire degli anni trenta, il collegamento tranviario tra il centro cittadino e la stazione inferiore della funicolare, in Piazza delle Carrozze, fu sostituito da un servizio di filobus che hanno fornito il loro onorevole servizio fino al 1973, anno in cui sono stati definitivamente smessi. Per i più grandicelli sarà facile ricordare come, fino a dieci anni prima, allorché fu inaugurata la strada panoramica, la Funicolare costituiva l’unico mezzo per raggiungere il Santuario della Madonna delle Grazie. Nel frattempo, nel 1972, il Comune di Livorno si accollò la gestione dell’impianto che, in tempi successivi, fu affidata all’A.C.I.T. (Azienda Consorziale Interprovinciale Trasporti) ed infine all’A.T.L. (Azienda Trasporti Livornese). Poco prima degli anni ottanta, si pensò bene di sostituire le vetuste carrozze in legno con altre più moderne e funzionali in ferro, in grado di ospitare 50 passeggeri, costruite dalla ditta Agudio. Per il primo ammodernamento dell’impianto vero e proprio, comunque, bisogna attendere un’altra decina d’anni allorché la gestione fu totalmente automatizzata; scomparvero i controllori di bordo ed il complesso fu reso governabile da un unico punto di controllo, situato nella stazione a monte, equipaggiato con dodici monitors in grado di ricevere informazioni da altrettante telecamere fisse disseminate lungo il tragitto e nella stazione a valle. Il tornello della stazione a valle divenne in grado di contare i passeggeri e bloccarsi autonomamente una volta raggiunta la capienza massima del vagone; in caso di un passeggero in carrozzella, il numero massimo di accessi veniva decrementato di 5 unità. Anche il tornello tra la sala d’attesa e la piattaforma d’accesso alla vettura fu reso completamente automatico e totalmente sotto controllo visivo dell’operatore a monte attraverso una telecamera. La fermata intermedia è tuttora a richiesta tuttavia può essere effettuata, sia in discesa che in salita, esclusivamente dalla vettura numero due.
Ma è poco prima dell’inizio del secondo millennio che si registra la più importante e, finora, definitiva miglioria operata per iniziativa dell’attuale gestore (l’Azienda Trasporti Livornese): l’installazione di celle fotovoltaiche in grado di sfruttare l’energia solare. I 348 pannelli, attualmente posizionati sul tetto della struttura del parcheggio, a poche centinaia di metri dalla stazione superiore, garantiscono il perfetto e regolare funzionamento della funicolare e, al tempo stesso, consentono l’immissione di una certa quota di energia in eccesso nella rete ENEL, nel rispetto delle più rigorose norme di disciplina e rispetto ambientale. Pur lasciando inalterato l’antico fascino dello stravagante e piacevole mezzo di trasporto, l’impianto è in grado di sviluppare energia elettrica tra i 40 ed i 50 megawatt annui e, quello che più conta, garantisce “emissioni zero”. La batteria di accumulatori è in grado di sopportare autonomamente, quindi senza altro apporto di energia dalla rete, fino a 17 viaggi anche a pieno carico e solamente in salita. In realtà, in caso di assenza di fornitura da parte della rete ENEL, gli accumulatori sono tarati in modo da ridurre le prestazioni in relazione alle loro condizioni di carica; inoltre la gestione completamente automatica del flusso di potenza da e per la rete, consente di recuperare, e quindi immagazzinare nella batteria, parte dell’energia rigenerata dalla vettura che si muove da monte verso valle. Si tratta di un sistema davvero all’avanguardia e, oltretutto, tra i pochissimi, in Italia, a funzionamento e gestione totalmente automatizzata.
Come dire? Fascino e tecnologia a braccetto lungo la Funicolare di Montenero.

Ermanno Volterrani, 04.04.2008

CARATTERISTICHE GENERALI
Lunghezza percorso:
636 m
Dislivello:
109,58 m
Pendenza media:
17,23%
Pendenza massima:
18,60%
Quota stazione a valle:
74,28 m s.l.m.
Quota stazione a monte:
183,86 m s.l.m.
Stazione motrice:
 a monte
Treni di linea:
2
Capacità di ogni treno:
50+1
Tempo minimo di corsa:
190 secondi
Tempo minimo di un ciclo:
310 secondi
Potenzialità massima:
580 persone/ora per ramo
Velocità massima:
4 metri/secondo
Velocità con recupero:
2 metri/secondo
Potenza motore elettrico principale:
48 KW
Potenza motore diesel argano di recupero:
45 KW
Diametro fune traente:
2 mm


domenica 10 marzo 2013

Mario der riovero

Marino Scarfi, Mario der ri’overo, il piccolo grande uomo che recitò con la Gardner
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“Hai mai sentito parlare di Mario der ri’overo?” Una domanda del genere posta ad un livornese che non abbia ancora compiuto i trent’anni riceverebbe, come risposta, un’alzata di spalle che la dice tutta su quanto poco sia rimasto della figura del piccolo grande uomo, capace di calamitare su di se l’affetto di una città intera. L’incedere altalenante, tipico della prpria condizione di acondroplasico, lo rendeva inconfondibile e chiunque, incontrandolo, si soffermava per scambiare con lui anche solo una battuta.
Mario der ri’overo, al secolo e all’anagrafe Marino Scarfi, è una delle figure più caratteristiche della recente storia popolare livornese, amato e benvoluto come pochi altri grazie alla propria benevolenza, generosità ed arguzia fuori dal comune. “Grazie allo zio Mario, già all’età di appena quattro anni, ho assistito alla prima partita di calcio a Villa Cayes. Nonostante avesse un’infinità di amici che reclamavano la sua presenza, ogni domenica lo zio era ospite a casa nostra e, quando il Livorno giocava in casa, dopo pranzo mi portava alla partita, i primi tempi a Villa Cayes, appunto, e poi allo stadio. Mentre salivamo i gradini degli spalti, in molti tiravano lo zio per la giacca a destra e a manca affinché si sedesse accanto a loro: c’era la ressa per amario0001.jpgccaparrarsi la sua compagnia”. Inizia così il resoconto di Ennio Scarfi, nipote di Marino… Mario per discendenza diretta, riconoscente per l’importanza che lo zio ha avuto nella formazione della propria identità sportiva. “Lo zio Mario era un’amante dello sport vero e leale, quello di una volta, ed è riuscito a coinvolgermi al punto che le ultime vicissitudini a livello calcistico, come la cupola di calciopoli o gli avvenimenti luttuosi degli ultimi tempi, me ne hanno fatto allontanare. Non c’era bisogno di bastoni, coltelli e petardi, quando andavamo allo stadio noi; il massimo che poteva capitare era un occhio nero per una scazzottata tra tifosi di compagini avversarie, magari tra pisani e livornesi, dopodichè si finiva tutti dal Civili a riconciliarsi di fronte ad un ponce caldo”. Nella palestra di Via del Leone, prima, ed a San Marco, poi, Mario era di casa e gli atleti della Pugilistica Livornese (Bertola, Ceccarini ed altri, nell’arco degli anni) gli portavano il massimo rispetto considerandolo uno di loro, a dispetto della statura e del fisico tutt’altro che prestante. “Quando si trattava di assistere ad una manifestazione sportiva, lo zio era sempre ospite di qualcuno dell’organizzazione e non gli ho visto mai pagare il biglietto d’ingresso e neanche io ho mai tirato fuori un centesimo, quando ero con lui. Perfino in occasione di trasferte, anche lontane, ricordo di una volta a Palermo, la sua compagnia era tra le più ricercate e, quando con un amico, quando con un altro, aveva sempre il posto assicurato. Un po’ per la bassa statura, un po’ per l’arguzia e la simpatia che contraddistingueva il suo modo di proporsi al prossimo, lo zio era considerato un po’ come una mascotte”.
Mario aveva la propria residenza all’istituto Giovanni Pascoli di Via Galilei (ovviamente prima che fosse trasferito in Via Mondolfi), a cui fu affidato fin dalla giovanissima età in quanto orfano d’entrambi i genitori. “Il padre, siciliano, era sottufficiale della Marina Militare” continua Ennio “e, dopo un periodo trascorso a Cagliari, giusto il tempo di conoscere colei che è divenuta la propria moglie e di avere un figlio, mio padre (per inciso, mio padre amava a tal punto Livorno fino quasi a rinnegare le proprie origini isolane), fu trasferito alla Capitaneria di Porto di Livorno e qui, il 10 agosto del 1901, vide la luce Marino. Allora, abitavano dalle parti di Via San Francesco e, a quanto si tramanda, a mia nonna capitava spesso di transitare di fronte alla bottega di un calzolaio di Via del Mulino, a sua volta nano, da cui sarebbe rimasta impressionata al punto da influenzare e addirittura determinare le fattezze e la statura del figlio che portava in grembo”. Ennio ride nel raccontare l’episodio.
Col passare degli anni, Mario si deve essere ambientato alla casa di riposo di Via Galilei al punto da rimanervi per tutta la propria vita. “Prima della guerra, mio padre, suo fratello, avrebbe voluto vederlo sistemato in maniera più vicina ad un a condizione considerata ‘normale’ ed aveva, addirittura, pensato di aiutarlo nel rilevare un’edicola di giornali tuttavia lui ha sempre rifiutato, forte della situazione di privilegio di cui godeva tra i residenti dell’istituto Giovanni Pascoli. Il dottor Acquaviva, il direttore dell’istituto dell’ultimo periodo trascorsovi dallo zio Mario, gli voleva un gran bene e gli assegnava incarichi e commissioni su misura per lui. Benché non fosse un vero e proprio impiegato e non percepisse alcuno stipendio, lo zio aveva il proprio ufficio in cui espletava le proprie funzioni in relazione alle disposizioni del direttore. Inoltre, gli anziani domiciliati presso il ricovero, specialmente coloro che si muovevano con difficoltà a causa dei malanni dell’età avanzata, si avvalevano della sua collaborazione per riscuotere la mensilità della pensione, in cambio di un po’ di mancia che Mario, spessissimo, tramutava in ricevute del botteghino del Lotto. Era l’unico suo vizietto:” sorride Ennio “nonostante i familiari cercassero in mille modi di dissuaderlo, giocava forte al Lotto, al limite dell’accanimento ma, per sua fortuna, vinceva piuttosto spesso ed arrivava a casa soddisfatto sventagliando i proventi della vincita di un ambo o di un terno. Quando si rimproverava, in modo benevolo, perché non ha mai chiesto soldi a nessuno, mostrava 10 ricevute, quando magari, in realtà, aveva effettuato almeno una quindicina di giocate. I più piccoli, come lo ero io all’epoca, erano i beneficiari delle sue vincite al gioco in quanto spesso arrivava con un apprezzato regalino”.
Oltre allo sport, Marino… Mario amava la fotografia ed Ennio, affrontando l’argomento, si alza dalla sedia e si reca verso i ripiani del mobile del salotto da cui preleva una vecchia macchina fotografica Kodak, con obiettivo a soffietto, che ci mostra con orgoglio: “Questo è l’ultimo regalo, o sarebbe più corretto definire ‘l’eredità’ che mi ha lasciato mio zio. Da lui ho appreso i segreti della fotografia, di cui era davvero appassionato cultore. Non aveva soggetti preferiti: i suoi interessi svariavano dai panorami mozzafiato della piazza del Santuario di Montenero ai ritratti femminili, dai tramonti sulla Terrazza Mascagni alle manifestazioni sportive. Chi scattava fotografie, una settantina d’anni orsono, non aveva l’ausilio di esposimetri, teleobiettivi, grandangolari e correttori d’esposizione, la buona riuscita di un’istantanea dipendeva dal polso fermo e dall’occhio che traguardava attraverso il mirino della macchina fotografica… e devo dire che lo zio era davvero molto capace. Purtroppo delle sue foto non è rimasto praticamente nulla, cannibalizzato a destra e a manca da parenti amici e conoscenti”. Ennio racconta di essere stato costretto ad abbandonare Livorno e l’Italia per un lungo periodo, a causa di gravi problemi di salute, e teme che proprio, in quel periodo, parte della propria collezione fotografica si sia dispersa nel corso degli inevitabili traslochi dovuti ai ripetuti cambi di residenza. “Facevamo spesso fotografie ad una bella ragazzina, di pochi anni più grande di me tuttavia ben più donna di quanto non fossi uomo io, che abitava nella zona dei fossi. Ricordo di una volta, al moletto d’Ardenza in cui, non sapendo ancora nuotare, mi mostrai timoroso nell’entrare in acqua. Quella ragazzina mi tolse da ogni impiccio e, con uno spintone, mi scaraventò di sotto, costringendomi ad imparare. Come si dice da noi: o bere o affogare! Anche lo zio era un discreto nuotatore nonostante le dimensioni degli arti, soprattutto delle gambe, non lo agevolassero”.
Forte della propria condizione di scapolo, benché la condizione fisica lasciasse a desiderare e non avesse mai neanche preso la patente, lo zio Mario era sempre pieno di donne. Probabilmente si faceva apprezzare per la discreta cultura e l’intelligenza che dimostrava nelle proprie conversazioni, nonostante potesse contare esclusivamente sulla licenza di quinta elementare, un lusso se paragonata al grado d’istruzione medio della gente dell’epoca. Leggeva tantissimo e non aveva preferenze spaziando da libri a giornali, in prevalenza sportivi, ma non solo. Per quanto riguarda i rapporti con le donne, comunque, si diceva in giro che, laddove la natura era stata ben poco generosa nel conferirgli un aspetto estetico tutt’altro che attraente, la stessa natura avrebbe abbondantemente rimediato nella fornitura di attributi meno appariscenti tuttavia notevolmente apprezzati da una certa categoria di rappresentanti del sesso femminile. Magari è proprio questo il motivo per cui non si è mai preoccupato d’impegnarsi in una duratura relazione sentimentale.
Ennio butta sul tavolo un episodio dell’immediato dopo guerra: “Al Gimnasium, lo zio partecipò ad uno spettacolo di Sergio Galli, uno dei tanti allestiti dal comico livornese a cui ha partecipato, il cui titolo mi sfugge, in cui interpretava un improponibile neonato. Ho ancora fissa negli occhi l’immagine dello zio all’interno di una carrozzina, agghindato in tutto e per tutto come un bebé, con tanto di cuffietta orlata di trine in testa ed il ciuccio in bocca. Ricordo di aver visto spesso in giro per casa una fotografia che lo ritraeva in quelle condizioni, purtroppo l’ho cercata a lungo ed in ogni dove, ma non sono stato capace di trovarla”. Una conferma delle qualità artistiche del nostro beniamino è facilmente rintracciabile su internet: Mario del ricovero, pur da comparsa, interpretò il ruolo di Bonito nel famoso film “La Maja Desnuda” del 1958, diretto da Henry Koster e fregiato del David di Donatello d’oro dell’anno successivo per la miglior produzione. In quell’occasione, Mario ha condiviso il set con attori del calibro di Ava Gardner (nel ruolo della Duchessa d’Alba), Antony Franciosa (Francisco Goya), Amedeo Nazzari, Gino Cervi e Lea Padovani… e scusate se è poco. “Si, si!” conferma Ennio “Lo zio ha partecipato a diversi film, sempre interpretando parti di secondo piano, soprattutto con Erminio Macario, al tempo degli stabilimenti cinematografici della Pisorno. Per colpa della mia memoria a corrente alternata, ricordo solo un titolo: ‘Il pirata sono io’, un film comico del 1940 interpretato dallo stesso Macario e da Tino Scotti… ma più di qui non si va! Le esperienze sul set gli hanno consentito di conoscere, tra gli altri, Primo Carnera il gigante buono di Sequals, mito degli anni ’30 e la fotografia di Luciano Ciriello che ritrae la loro stretta di mano è appesa in molti angoli della nostra città”.
Il 29 luglio del 1973, dunque proprio alle soglie dei 72 anni, al termine di un breve periodo d’infermità, tipico di certe tare ereditarie, Mario ha preso la via del mondo dei più e purtroppo, ad oggi, non c’è più traccia neanche della sua tomba: “Alla scadenza dei venticinque anni dalla sua scomparsa, i resti dello zio Mario sono stati rimossi, in accordo con la regolamentazione vigente. Era il periodo in cui io mi trovavo negli Stati Uniti a cercare una soluzione ai già citati gravi problemi di salute e mi sono molto rammaricato scoprendo, al mio rientro in città, che la tomba era stata smantellata e rimpiazzata: ne fossi stato informato avrei senz’altro provveduto a riscattarla per mantenere vivo il ricordo di un uomo che la popolazione di Livorno ha sempre dimostrato di amare davvero”.
Un altro tassello della tradizione popolare labronica che rischia di essere travolto e, ahimé, disgregato dell’incedere degli eventi.
Ermanno Volterrani, 01.03.2008