domenica 28 ottobre 2012

La Fonte Vecchia di Antignano

Gli antignanesi utilizzavano il ponte come rifugio contro le bombe
La Fonte Vecchia dissetava gli antignanesi durante la guerra
I ragazzini sbirciavano sotto le gonne delle massaie chine a lavare i panni

Molti livornesi magari non ne conoscono neanche l’esistenza tuttavia la Fonte Vecchia ha rappresentato un punto fermo per Antignano e gli antignanesi, soprattutto i residenti nella zona “vecchia” del paese, che si sviluppa attorno alla Piazza Bartolommei ed al vecchio Castello, già Albergo Cremoni.
Imboccando la Via del Ciliegio e procedendo verso nord, ci si lascia a destra la Via del Poggetto per impegnare un declivio piuttosto ripido al termine del quale s’intravede la vegetazione tipica dei numerosi botri e rii che solcano la nostra terra. Il Botro delle Carrozze, anticamente Botro della Fonte Vecchia, per l'appunto, è un rigagnolo d’acqua corrente che sbuca dal ponte che già nel lontano 1799 fu realizzato per consentire la percorrenza della Via del Littorale senza essere costretti ad un fastidioso guado del piccolo corso d’acqua. Al termine della discesa, rivolgendosi verso destra, si distingue nettamente la struttura degli antichi lavatoi pubblici della Fonte Vecchia, gestiti dall’Amministrazione Comunale fin dai tempi antichi.
Percorsi pochi passi, un cartello bianco e rosso su una minuscola transenna, larga un metro a malapena, reca l’intestazione dell’Ufficio Traffico del Comune di Livorno ed avvisa semplicemente di una situazione di pericolo, senza tuttavia negare o sconsigliare l’accesso alla pericolante struttura. Bassi cespugli d’erbacce riducono il passaggio ad un viottolo che costeggia il minuscolo corso d’acqua il cui pacato gorgogliare contrasta con l’evidente situazione di degrado che regna all’intorno. Sulla destra del viottolo, a ridosso dell’alto muro in cemento, pochi laterizi, tegole di tipo romano, testimoniano l’intenzione, ahimé remota, viste le condizioni di totale abbandono del materiale, di un possibile restauro. La tettoia versa in pessime condizioni cosicché le travi di sostegno, in legno massiccio, paiono sopportare a malapena il peso delle strutture sovrastanti, nonostante poggino su colonne portanti di recente, anche se non recentissima, ristrutturazione: il rischio di prendere una tegola tra capo e collo è palese e testimoniato dal fatto che non c’è traccia della prima sezione della tettoia, evidentemente crollata da tempo ed opportunamente rimossa (magari le tegole accantonate sono residui dello spiovente crollato!). La vista del botro, attraverso le uniche due aperture, è completamente ostacolata dalla vegetazione di canne e da pannelli di compensato mezzi marci dalla provenienza ignota. Sul fondo e sui bordi delle due ampie vasche dei lavatoi, colme d’acqua limpida, il muschio verde la fa da padrone ed altra vegetazione si è insediata su parte dei bordi. La netta sensazione di malinconia che assale nel percorrere il breve tragitto sotto la pensilina, prestando attenzione ad evitare fangose quanto scivolose pozzanghere, è solo parzialmente alleviata dallo scroscio dell’unico tubo che spunta di fianco, da cui un copioso getto continuo di acqua chiara e freschissima induce a bere a pieni sorsi. Dal muro dirimpetto, interamente occupato da larghe chiazze d’umidità, un fiotto d’acqua filtra attraverso una crepa. Ritornando sui propri passi, si ode un nuovo gorgogliare: lo scarico delle pile, nascosto da un cespuglio d’erbacce.
E pensare che fino a meno di quarant’anni fa, le attività alla Fonte Vecchia erano ancora, se non proprio frenetiche, per lo meno vitali. Le massaie si recavano per lavare i panni nell’acqua costantemente rinnovata nella coppia di grandi vasche, magari in compagnia di figli o nipotini, e c’è da giurarci che l’occasione rappresentasse un importante momento di aggregazione per la piccola comunità paesana. Sembra tuttora di udire l’eco di qualche canzone storpiata a squarcia gola da qualche ilare comare intenta a battere un lenzuolo sullo scivolo del lavatoio.
Scorrendo ancora un po’ indietro nel tempo, ragazzini ormai più che sessantenni, ricordano d’essersi rimpiattati tra la vegetazione spontanea del Botro della Fonte Vecchia per sbirciare, indisturbati, verso l’argine o verso le pile dove le massaie, lavandaie per l’occasione, si chinavano in avanti esponendo i propri generosi fondo-schiena allo sguardo avido d’adolescenti dagli ormoni irrequieti.
Furio, il figlio di Lina, l’ultima custode del sito, che aveva ereditato il ruolo dalla madre, racconta di quando, scendendo con la nonna, trovava famigliole di zingari che lavavano nidiate di figlioli nelle pile della Fonte Vecchia. Perfino in inverno, le mamme tuffavano quei ragazzini completamente nudi nelle pile colme d’acqua gelida in barba ad ogni precauzione contro raffreddore, tosse ed altri malanni di stagione.
I più anziani ritornano ai tempi della seconda guerra mondiale allorché l’arcata dell’ampio ponte sul botro, quello della Via del Littorale, era utilizzata quale ricovero, o più propriamente come rifugio, durante i numerosi bombardamenti che hanno falcidiato la nostra città ed i suoi dintorni. Si rammenta una coppia d’anziani, soli e senza figli, che si univano alla comunità nell’occasionale rifugio, recando con se una minuscola borsa, forse un piccolo tascapane, nel quale doveva aver prudentemente riposto tutti i propri averi, ben pochi viste le modeste dimensioni del contenitore, intenzionata a salvarli nell’eventualità in cui la gragnola di bombe avesse colpito la propria abitazione.
E che dire del ruolo importantissimo, per non dire fondamentale, che la Fonte Vecchia ha avuto nell’approvvigionamento idrico del paese, spesso a secco durante le fasi più ostiche del conflitto? Laddove gli abitanti di Antignano Nuovo si recavano alla fontina sul mare (quella che attualmente si trova in fondo a Via della Salute, ormai non più nella posizione originaria), quelli di Antignano Vecchio, armati di brocche di rame, secchi, catinelle e qualunque recipiente potesse contenere acqua, facevano la fila al cospetto di quell’unico disponibile tubo erogatore del primario elemento.
            Lina manteneva la zona pulita e perfettamente agibile, è andata in pensione, mai rimpiazzata, un bel po’ d’anni fa e, recentemente, ci ha lasciato; magari da dove si trova adesso, avrebbe un motivo per sorridere, se a qualcuno dell’Amministrazione Comunale venisse in mente di ripristinare e rivalutare la Fonte Vecchia prima che sia definitivamente inghiottita dalla vegetazione che rapidamente si diffonde sugli argini dell’omonimo botro.
A quando la cerimonia d’inaugurazione?

Ermanno Volterrani, 24.02.2008


domenica 1 luglio 2012

La Sezione Nautica Canottieri di Antignano

"Per difendere la sede fummo costretti a ricorrere all’arma del ricatto palesando l’idea di non partecipare al Palio "
Quelli della Sezione nautica
Un tempo la collocazione del Circolo canottieri di Antignano era un'altra. La storia raccontata dai protagonisti

La Sezione Nautica Canottieri Antignano si trova al porticciolo dell’omonimo rione, vicino all’ingresso sulla sinistra ed occupa una confortevole costruzione prefabbricata a disposizione di soci ed ospiti… ma non è sempre stato così!
“La Sezione Nautica Canottieri Antignano esiste già dal 1932. Io ho iniziato ad occuparmene solo nel 1983, al tempo in cui offrivo collaborazione, in qualità di vogatore, nella preparazione del Palio Marinaro – così esordisce Stefano Galoppini (ma chi lo conosce?), per i più noto col soprannome di Leone (aah, Leone!) – Prima di quella data, alla fine degli allenamenti tiravamo il gozzo in secca proprio qui, dove ci troviamo ora, davanti allo scalo e completamente all’aperto; privi di uno spogliatoio, i vogatori (me compreso) erano costretti a recarsi alle rispettive abitazioni, per cambiarsi e fare una doccia. Al termine di una movimentata riunione con i dirigenti dell’epoca, tenutasi nei locali del circolo ARCI, durante la quale ci furono scambi di vedute che definire vivaci è un puro eufemismo, ci fu concessa l’autorizzazione ad organizzarci sulla terrazza qui di sopra. Mauro Volpi, Maurizio Bondani, Ivano Gelli ed io cominciammo i lavori di pulizia e, grazie all’intervento di Mauro Angeli ed Oreste Volpi, acquistammo a poco prezzo dalla Compagnia Portuali, un container che sarebbe divenuto spogliatoio ed ufficio dell’erigenda sede della Sezione Nautica”.
Il racconto di Leone è supportato da interventi degli altri soci che descrivono, ognuno, il proprio contributo nel restauro in questione. Fu così che, nel 1983, la Sezione Nautica ebbe la sua sede. Contagiata dall’entusiasmo dei quattro moschettieri, gran parte della popolazione prese a cuore la bonifica dell’area e, specialmente i pensionati, misero a disposizione del circolo il loro tempo libero ed il loro mestiere: ex muratori, falegnami, fabbri e tutti gli altri artigiani smessi contribuirono al definitivo restauro dell’area. Poco prima dell’estate del 1983 la desolata piazzola, dalla cui spalletta si dominava tutto il moletto, aveva assunto i connotati di un bel circolo ricreativo in cui i paesani trascorrevano pomeriggi e serate al fresco ed in compagnia. Il già rammentato contenitore fungeva da spogliatoio per i vogatori, piccolo ufficio e, all’occorrenza, spaccio di bibite e gelati per la gioia dei bambini. Un canniccio come tetto della terrazza principale, consentiva di giocare a carte, dama o scacchi al fresco, di giorno, e al riparo dalla guazza, la sera. Una pista per le bocce era teatro di accesi incontri che rallegravano le serate e non mancavano il biliardino ed il ping-pong per i più giovani, e non solo; i soci ricordano con un po’ di rimpianto, anche serate danzanti organizzate saltuariamente per lo più di sabato sera. Insomma durante l’estate del 1983 e quelle successive, gli antignanesi avevano dove passare il tempo grazie alla costruzione della sede della Sezione Nautica. “Siamo stati anche vittima di un mini-attentato. – Interviene Piero, il tesoriere, sorridendo. – Una mattina trovammo bruciata parte delle canne che circondavano il container/ufficio e, nelle vicinanze, una tanica vuota il cui interno odorava di benzina. Non abbiamo mai saputo che cosa fosse accaduto: magari il successo della nostra specie di circolo ricreativo dava fastidio a qualcuno”.
Purtroppo, la caducità delle cose piacevoli è universalmente nota e, nel 1995, il Circolo Velico acquistò l’area occupata dalla Sezione Nautica che fu costretta a sgombrare. “In accordo con il Comune e la Circoscrizione, il container (adesso definitivamente rimpiazzato dal prefabbricato) fu trasferito uno scalino più sotto dove però, viste l’esiguità degli spazi e la vicinanza al molo vero e proprio, non fu possibile riorganizzarci al pari di come facemmo nella precedente sede. – Spiega Piero. – A dire il vero, non fu facile raggiungere l’accordo: per ottenere il permesso di occupare questa zona, fummo costretti a ricorrere all’antipatica, tuttavia efficace, arma del ricatto palesando l’idea di non partecipare al Palio, nel caso in cui non ci fosse assegnata una sede”.
Inevitabilmente, la chiacchierata scivola verso il Palio Marinaro. “Partecipiamo alle competizioni dei gozzi a quattro remi. – Continua Leone, per anni protagonista dell’organizzazione, da vogatore, allenatore o dirigente. – La nostra cantina era sotto Piazza Cavour, lato mare, prima di essere trasferita sotto al Ponte Novo, accanto a quella del Palio Marinaro, per l’appunto. Io ho gestito il gozzo dal 1988 al 1995 e, da allenatore, ho perso il dieci-remi nel 1989. Fu colpa mia! Feci gareggiare un ragazzo che, pur diligentissimo e sempre presente agli allenamenti, offriva prestazioni inferiori, rispetto ad altri. Fu una scelta dettata dal cuore, piuttosto che dalle esigenze tecniche, tuttavia fu fatale al nostro gozzo: ci classificammo ultimi al Palio Marinaro. A conferma della mia responsabilità, la settimana successiva, alla Barontini, operai il cambio e ci classificammo sesti… troppo tardi!”. L’espressione più alta della partecipazione del gozzo dell’Antignano alle manifestazioni remiere cittadine si è concretizzata nel 1954 allorché, in agosto, vinse la tribolata edizione del Palio Marinaro, rimandata più volte a causa delle avverse condizioni meteo-marine. Raccattati gli scarti dei rioni cosiddetti ricchi (Borgo, Venezia, Pontino, Benci-Centro etc.) il gozzo dell’Antignano si presentò per primo al cospetto dell’Acquario Comunale. “Caricammo il gozzo su un pianale e facemmo il giro della città – ricorda Piero – con un nugolo di biciclette a seguito che, con noi, festeggiavano l’avvenimento”.
A proposito della Coppa Barontini, Leone racconta un aneddoto relativo alla gara a dieci remi del 1986, in notturna: “Una settimana prima della gara un infortunio ci privò del timoniere. In extremis, Mauro Angeli si sobbarcò l’onere di partecipare, nonostante non conoscesse il percorso in notturna. La sera precedente la gara, con la vespa, accompagnai Mauro per un giro sugli scali e gli mostrai il percorso, unico riferimento possibile, vista l’esiguità del tempo a disposizione. L’impegno di tutto l’armo fu tale che giungemmo terzi al traguardo, dietro Venezia ed Ovo Sodo”. Con rimpianto per il mutamento delle condizioni e del tifo, Leone rammenta di qualche scazzottata per screzi avvenuti durante il percorso, l’ultima per uno scontro di gozzette alla Luminella (testata sud del Molo Novo) all’uscita della quale l’Antignano si trovò con due remi rotti su quattro, “ma tutto finiva lì! – ci tiene a precisare – dopo il Palio ci trovavamo tutti a festeggiare insieme davanti a un ber ponce!”.
La Sezione Nautica è un’organizzazione totalmente no-profit e consta di 230 soci, tra coloro che usufruiscono del posto barca, quelli che con canoa ed i semplici frequentatori: ognuno di loro contribuisce con una quota sociale adeguata alle prestazioni richieste e quasi tutto il ricavato viene impiegato per partecipare alle manifestazioni remiere cittadine. Spiega Piero: “Per un’annata intera, tra l’affitto della cantina, completamente attrezzata a palestra, luce, acqua, gas, equipaggiamento per l’armo e qualche cena a vogatori e soci, si rasentano i 10.000 € di spese. Ultimamente siamo riusciti a risparmiare abbastanza da concederci il lusso di questa nuova sede”.
Attualmente il presidente della Sezione Nautica Canottieri Antignano è Bruno Mengheri, l’amministratore è Paolo Sposini, coadiuvato dal tesoriere Piero Netto, mentre Romano Tarantini e Simone Gabiccini si occupano dei posti barca ed Emiliano Bertolini e Lorenzo de Felice gestiscono le rastrelliere dove sono riposte le canoe. Leone, al secolo Stefano Galoppini, è un po’ il factotum sobbarcandosi i lavori di mantenimento, manutenzione e pulizia dell’area per la soddisfazione di tutti coloro che vogliono trascorrere un paio d’ore in riva al mare all’insegna di pace e serenità.

Ermanno Volterrani, 29.03.2008


domenica 13 maggio 2012

la favola di Ercole Labrone

La favola di Ercole Labrone

C’era una volta… Beh! Quante favole iniziano così? E perché non principiare con la medesima formula anche la favola della nostra bella città? Da capo!
C’era una volta una famiglia che si trovava a veleggiare sulla propria barca per il Mar Tirreno, proveniente da sud, alla ricerca di terra da riattare. Il vento e le onde portarono padre, madre ed il giovane figlio ad un luogo che appariva inospitale per le paludi, gli acquitrini e la desolazione che regnavano vicino alla costa; un’esplorazione più attenta delle colline e dei terreni dislocati più all’interno, tuttavia, rivelò un clima decisamente mite, la terra era giusta e prometteva di poter dare buoni frutti. Decisero allora di piantare olivi ed oleandri che curarono amorevolmente sennonché, avvicinandosi il tempo della maturazione, i tre furono costretti a far ritorno ai propri lidi abbandonando quella terra che cominciavano ad amare ma che disperavano di poter rivedere in futuro.
Al ritorno, godevano il clima mite della loro bella terra, ricca di fiori, piante e frutti, tuttavia spesso i ricordi andavano al lido selvaggio e specialmente il figlio, di nome Ercole, soprannominato Labrone per le labbra voluminose, spesso si chiedeva se gli alberelli piantati con tanto amore avessero attecchito e fossero cresciuti. Con nostalgia, Ercole si ricordava di mattine fresche e limpide, dell’azzurro del mare e del verde dei boschi, di tramonti infuocati e di notti tranquille e spesso veniva sopraffatto dalla commozione. Col passare degli anni, Ercole si fece un omone grande e grosso, forte e robusto ma sempre col chiodo fisso di quella terra, tanto meravigliosa quanto poco goduta, al punto che decise di prendere nuovamente il mare con la propria barchetta a vela. A seguito dei favorevoli presagi delle donne del villaggio, Ercole si mise in viaggio senza che i genitori lo distogliessero dai propri propositi. La traversata si mostrò più ardua del previsto ed Ercole, pur scrutando attentamente le coste del continente, non riuscì a scorgere nulla che gli ricordasse il suo bel lido. Imperterrito resistette a procellose tempeste e si sfinì al remo quand’era bonaccia finché un giorno, con la vela allo scirocco, fu assalito dallo sconforto e si adagiò a poppa dell’imbarcazione che si muoveva sull’onda lunga. Preso da un senso d’abbandono ed in preda alla spossatezza per le lunghe giornate trascorse senza riposo, Ercole incrociò le braccia dietro la testa e, sfinito, si addormentò.
Al risveglio, la brezza di maestrale aveva preso il sopravvento e la barca filava via imperterrita fendendo le onde di un azzurro limpidissimo. Dopo ore o forse giorni di navigazione serena in quell’incanto, finalmente Ercole riconobbe, in lontananza, l’agognate sponde dove gli olivi erano carichi di frutti e gli oleandri erano tutti in fiore, gli acquitrini splendevano al sole e le tamerici coronavano la spiaggia. Egli sbarcò e, come avvolto da un luminoso silenzio, ascoltò il Signore, che solo lui era in grado di udire, ordinargli di scavare canali che dal mare partissero e ad esso ritornassero per bonificare la terra. Il Signore gli esternò il presagio di una vita estremamente travagliata ma dalle soddisfazioni enormi: gli predisse che avrebbe fondato una grande città e che il suo nome sarebbe stato ricordato nei secoli. Gli fornì una clava robusta per difendersi, una zappa per dissodare la terra e gli ordinò di darsi da fare immediatamente che Lui lo avrebbe seguito e guidato.
Ercole era solo un puntino tuttavia splendente in mezzo a quella landa assolutamente deserta; mentre le onde del mare frangevano sugli scogli, le cicale presero a cantare come per incoraggiarlo in quell’impresa eccezionale e lui, finalmente giunto alla terra per lungo tempo sognata, affondò la zappa nel terreno dando così inizio alla sua sovrumana fatica.
            Il lavoro che l’eroe aveva principiato era di proporzioni enormi e bonificare le paludi dove svolazzavano zanzare e nugoli d’altri insetti portatori di malattie e miasmi pestiferi si rivelò irto di difficoltà. Il Signore pensò di dare una mano al prode pioniere e, dalla Libia, prelevò un forte vento che purificò l’aria di quelle mefitiche paludi: per la sua provenienza, Ercole chiamò quel vento “Libiecio”.
Per i successivi cento anni, con gran compiacimento del Signore, Ercole lavorò duramente costruendo i canali comunicanti tra loro che gli erano stati ordinati; la terra si rinsaldava e, come premio per la costanza e la perseveranza, cominciava a dare i propri frutti. Alla fine, stanco per il lunghissimo, duro e solitario impegno, si abbandonò ad un’accorata preghiera che il Signore accolse prontamente inviandogli braccia forti che lo aiutassero a sbrigare le proprie faccende. Fu così che un giorno giunse in quella terra un omino chiamato Cicala, il giorno appresso un omicciòlo soprannominato Gallinella, quello dopo ancora un omiciattolo detto Gattuccio, poi un omaccio chiamato Polpo, indi un omaccino nominato Grongo e, l’ultimo giorno, un omaccione detto Scorpano. Una caratteristica accomunava tutti quegli individui: avevano i capelli rapati a zero e non poterono nascondere, ancorché inviati dal Signore, di essere recentemente evasi di galera. Al successivo levar del sole, il settimo, Ercole pregò che non arrivassero altri collaboratori e che il Signore provvedesse affinché le prigioni fossero vigilate con maggior attenzione. Accontentato nei propri desideri, con tanto di clava, Ercole obbligò i sei aiutanti a collaborare alla bonifica ed al recupero della zona finché, dopo un altro periodo di duro lavoro, egli morì alla bella età di centotrentuno anni suonati. Gli strampalati assistenti seppellirono il proprio capomastro con tutti gli onori ed edificarono in suo onore un grande tempio che fu battezzato Tempio di Labrone.
Così come aveva a suo tempo condizionato la volontà di Ercole, il Signore fece in modo che i sei ex carcerati andassero d’amore e d’accordo ed ordinò loro di costruire un castello nelle vicinanze della tomba e del tempio e così fecero. Il castello era quadrato ed imponente, equipaggiato con alte torri merlate e l’accesso era garantito da una gran porta che dava proprio sulla battigia. Con castello e tempio il lido inospitale stava assumendo i connotati di un villaggio ed il signore decise di chiamarlo Villaggio di Labrone cosicché gli unici sei abitanti, dopo la dipartita del patriarca, vennero chiamati Labronici. Pensando a migliorie da apportare al villaggio, il Gattuccio un giorno disse di aver visto, in oriente, un castello sul cui portone spiccava, a caratteri cubitali d’oro, la scritta “Conosci te stesso” e propose agli altri di apporre a loro volta un motto sulla porta del castello. Pensa che ti ripensa la scritta “di Labron son nato” apparve la più adatta cosicché ne forgiarono i caratteri cubitali in bronzo e l’applicarono proprio nel mezzo del portale.
Per niente stupito, il Signore apprezzò l’orgoglio dei Labronici e fece in modo e maniera che un’ispirazione li stimolasse a cucinare una pietanza che lasciasse il segno anche nel futuro più anteriore. I sei ex avanzi di galera, ormai pentiti ed ampiamente redenti, in un grande tegame misero a soffriggere e rosolare a puntino dell’olio d’oliva, del sale, della salvia e dell’aglio freschissimo tritato, poi aggiunsero acqua quanto basta e molto pomodoro a pezzi, pepe ed abbondante zenzero finché, quando la salsa fu ritirata ben bene, vi buttarono polpi, gattucci e gronghi tagliati a pezzi e scorpani, gallinelle e cicale interi, facendo cuocere il tutto a fuoco lentissimo, affinché s’insaporisse appropriatamente. Infine abbrustolirono diverse fette di pane che aromatizzarono strusciandoci freschi spicchi d’aglio. Misero il pane sul fondo di un catino che riempirono con il brodo di pesce appena cucinato poi pregarono il Signore per il cibo ricevuto e mangiarono con gusto la zuppa così ottenuta. Trovarono la zuppa tanto gustosa e forte quanto lo era stato il loro patriarca e quanto lo erano loro che pronunciarono un eloquente discorso: “Come dall’insieme di questi rozzi pesci è sortito un buon piatto, così da noi (in origine accozzaglia di poco di buono) verrà la bella cosa voluta dal Cielo e sulla terra del nostro Villaggio, cogli anni, crescerà una gran pianta”. Fu decretato che quello sarebbe stato il loro prelibato piatto delle ricorrenze e del ricordo che i loro figli ed i figli dei loro figli avrebbero mangiato nei secoli dei secoli. I Labronici si strinsero la mano destra in segno d’amicizia, alleanza e reciproca fedeltà e decisero di chiamare quella vivanda piccante col nome di “Cacciucco”.
Il Signore apprezzò molto l’iniziativa e la solennità del momento e decise d’inviare ai Labronici delle donne affinché si accoppiassero e si moltiplicassero in fretta finché il villaggio originario non fu più in grado di accoglierli tutti. Si fecero opere d’ampliamento e nuove costruzioni ed il complesso così ottenuto fu chiamato “Castello di Livorno” cosicché, da allora, gli abitanti furono detti Livornesi. La terra sempre più continuava a produrre abbondanti frutti e le acque dei canali scavati da Ercole Labrone costituivano un’abbondante risorsa di pesca oltre che importanti vie di passaggio.
Il Signore, soddisfatto dell’operato dei Livornesi, li guardò con occhio benevolo.

Liberamente tratto da “Livorno Nostra” di Gastone Razzaguta, Editrice Nuova Fortezza.

Ermanno Volterrani, 22.03.2008

venerdì 9 marzo 2012

Il Castello di Antignano

La Pieve di Santa Lucia inglobata nella struttura del Castello, al centro dell’attuale “Caciaia”
Ben poco rimane del Castello dell’Antignano
Dal castello all’albergo di lusso ed all’elegante condominio

Il Castello di Antignano (detto anche Forte di Antignano) è la rocca ubicata, lato monte, all’estremità sud dell’omonimo viale, proprio di fronte al tratto di mare che gli antignanesi sono soliti chiamare “la pompa”, spesso frequentato da amanti di surf e body-surf per le generose dimensioni delle onde che si creano a seguito delle frequenti mareggiate di libeccio: a scaduta, come si dice. La cinta del castello si estende verso l’interno e racchiude un ampio cortile, Piazza del Castello, nota come la “Caciaia”, al centro del quale si trova la Pieve di Santa Lucia, la parrocchia di Antignano prima che fosse trasferita nella chiesa di Banditella, tanto sontuosa quanto poco rappresentativa dell’umiltà predicata dal Cristo.
Attualmente il corpo principale del vecchio castello, fronte mare, è un elegante condominio, laddove le ali nord e sud e gli scorci del lato ovest sono adibiti a dimore più modeste. Precedentemente al suo attuale aspetto ed utilizzo, la famiglia Cremoni, proprietaria dell’immobile, aveva a suo tempo trasformato detto corpo principale in albergo di lusso frequentato da villeggianti di un certo rango fin dal 1878, allorché L’Antignano godeva di una discreta fama di località di villeggiatura; il rivellino triangolare fu invece adattato a grande terrazza da cui godere i panorami mozzafiato che il sole al tramonto genera sul nostro amato Tirreno.
Ma facciamo un passo indietro. Pur non esistendo testimonianze o documentazioni certe, il castello, di cui rimangono ben pochi resti, potrebbe essere il terzo fortilizio costruito ad Antignano nel corso dei secoli. Un primo edificio fortificato, utilizzato altresì per il ricovero delle truppe dislocate in loco, risalirebbe all’epoca dei romani, impegnati nella tutela delle coste dell’alto Tirreno contro le numerosi scorrerie piratesche. Andato distrutto per incuria, per le numerose incursioni barbariche o semplicemente per l’inevitabile incedere del tempo, un altro forte potrebbe essere stato costruito intorno all’XI o XII secolo a protezione del villaggio e della chiesa, già esistente fin dall’anno 1000 o giù di lì. A testimonianza indiretta della sua esistenza, durante un attacco del 1484, le navi genovesi in guerra contro i fiorentini avrebbero fatto sosta sotto Montenero, nei pressi dell’Antignano, prima di attaccare la torre del Marzocco: evidentemente l’attacco alla torre sarebbe avvenuto a seguito della distruzione del forte in questione.
Nella seconda metà del 1500, il Granduca di Toscana Cosimo I de’ Medici, dopo aver riassestato le campagne promuovendo la coltivazione di vigne, uliveti ed agrumeti, avvertì la necessità di costruire una fortezza sul litorale del piccolo paese dell’Antignano, allora entità ben definita e non ancora inglobato nella realtà rionale labronica, allo scopo di riorganizzare i sistemi difensivi e d’avvistamento della zona litoranea. Il Granduca affidò l’incarico di redigere il progetto al capitano Raffaello Guerrazzi di Castelfranco, già di stanza presso la Fortezza Vecchia con l’incarico di comandante, ed i lavori presero il via nel 1560 all’intorno della preesistente chiesa di Santa Lucia. Secondo l’opinione comune, la Pieve di Santa Lucia sarebbe stata eretta già nel XII secolo (o, come detto, addirittura in precedenza) e restaurata, o riedificata, intorno al 1370, come sembrerebbe dimostrare la lapide tuttora affissa sul muro della chiesa stessa. Proprio quello sarebbe l’anno in cui Papa Urbano V, durante una sosta del suo viaggio da Roma ad Avignone, consacrò la Pieve a Santa Lucia, martire siracusana. Il granduca Cosimo I avrebbe fatto ampliare, o addirittura ricostruire, la pieve in base alle esigenze del castello appena edificato e, nel 1575, sotto il successore granduca Ferdinando I, la chiesa sarebbe stata riconsacrata ai Santi Cosimo e Damiano per opera dell’arcivescovo di Pisa Pietro Giacomo Borbone (come attesta una pergamena rinvenuta durante la ricostruzione dell’altare intorno al 1931).
Secondo altre fonti, invece, la lapide in oggetto sarebbe stata distrutta e successivamente sostituita da un’altra, in tutto simile alla precedente tuttavia priva di fondamento storico. La prima chiesa eretta all’Antignano sarebbe stata ordinata dal granduca Cosimo I de’ Medici con lo scopo di servire il castello (la cui costruzione è terminata nel 1567). La consacrazione ai Santi Cosimo e Damiano dopo la dipartita del granduca Cosimo I, invece, sarebbe confermata anche da questa seconda ipotesi. L’attuale denominazione di Pieve di Santa Lucia, risalirebbe a tempi molto più vicini a noi, al 1799 allorché il “titolo” fu trasferito dalla chiesa di Santa Maria delle Grazie (il Santuario di Montenero) dove era stato temporaneamente trasferito nel 1781 a causa della rovina dell’edificio di Santa Lucia di Ardenza (G. Ciccone: Note storiche sulla chiesa di Livorno. Un benvenuto al nuovo vescovo, in Il Pentagono, n. 12, anno X, dicembre 2007, p.10).
Indipendentemente dalle controverse informazioni sulle proprie origini, attualmente la Pieve di Santa Lucia si trova inglobata in quella che, in origine, era la cinta muraria del Castello dell’Antignano in cui trovavano posto, oltre che gli appartamenti per i granduchi, anche gli alloggi dei lavoranti, della guarnigione ed i locali adibiti ad officine e laboratori.
Il castello, dunque, fu terminato non prima del 1567, come esposto da Benvenuto Cellini allorché, durante un’escursione a cavallo in compagnia del granduca, era giunto a circa 4 miglia a Sud di Livorno nel luogo in cui si stava costruendo un piccola fortezza. La struttura del forte prevedeva quattro bastioni, uno per angolo e due vie d’accesso, una lato mare e l’altra a monte (tuttora esistente).
Percorrendo in senso antiorario il perimetro quadrangolare delle mura del castello, a partire dal corridoio d’accesso situato a metà dell’ala est, al vertice nord est s’incontrava il bastione della Fonte (magari aveva già a che fare con la Fonte Vecchia, vedi “Corriere di Livorno” del 28 febbraio 2008) poi il bastione della Fornace a nord ovest (per la presenza di due fornaci probabilmente necessarie alla produzione dei materiali utilizzati nella costruzione del forte, attualmente di fronte all’omonima via), il bastione della Campana a sud ovest per terminare con il bastione del Giardino a sud est (verso Via Duca Cosimo, che prosegue in via dei Giardini, per la fastosa villa anch’essa edificata per volere del granduca). In epoca successiva un rivellino a forma triangolare, quello poi trasformato in terrazza dalla famiglia Cremoni, fu costruito sul lato prospiciente il mare per ospitare l’artiglieria pesante.
Da un resoconto del 1749 del colonnello Odoardo Warren, direttore generale delle fortificazioni di Toscana, l’armamento del forte era così composto: tre pezzi del calibro di 4 libbre, 2 da una libbra, sei spingarde, sedici moschetti a miccia e varie munizioni, mentre la guarnigione era composta da 1 Castellano (uff.), 1 caporale, 1 cannoniere e tredici soldati tra fissi e rinforzi (dal sito www.lalivornina.it).
            Ancora nel 1846 Piero Volpi, nella sua Guida del Forestiere per la città e contorni di Livorno, utile ancora al livornese che brama di essere istruito dei particolari della sua patria (Livorno 1846, p.236), rammenta un presidio militare a testimonianza del mantenimento dell’architettura originale del castello; è quindi in epoca successiva che va registrata la cessione della struttura ad identità private che ne modificarono la conformazione rendendola più confacente alle esigenze di dimora privata. Come già citato, il fronte a mare fu trasformato in albergo dalla famiglia Cremoni mentre il rivellino, pur mantenendo pressoché intatta la struttura originale, divenne un’ampia terrazza ed i locali sulle ali del castello furono adibiti ad abitazioni civili esistenti ancora adesso. Tra i più anziani, c’è chi ricorda officine e box allestiti nelle rimesse dell’albergo Cremoni all’epoca della Coppa Montenero, gara automobilistica degli anni 20-30, fregiata anche del titolo di Gran Premio d’Italia. La ristrutturazione dei locali dell’albergo ad unità per uso abitativo è stata la più recente e, almeno per ora, definitiva modifica.


Ermanno Volterrani, 11-03-2008

domenica 22 gennaio 2012

Le sartine degli americani

A scuola di cucito: impara l’arte e…

            Ad una voce, Riri e Lia, parlano a ruota libera del comune esordio nel campo del lavoro, in una sartoria artigianale, già in epoca pressoché scolare: “Avevamo appena finito la quinta elementare, che i nostri genitori, rispecchiando le esigenze dell’epoca, decisero in vece nostra che era l’ora d’imparare un mestiere”. È così che lo zio di Lia mette a disposizione dell
e novelle apprendiste il proprio laboratorio di sartoria da uomo, a conduzione del tutto familiare, la cui insegna, semplicemente “Emilio”, dalle dimensioni assolutamente contenute, la diceva lunga sull’inutilità, per l’epoca, dell’apporto pubblicitario. Stiamo parlando degli inizi degli anni quaranta allorché le due bambine iniziano a tenere l’ago tra le mani a cui è rimasto appiccicato per tutta una vita. “La bottega si trovava sull’angolo tra Via Duca Cosimo e Via dei Bagni” continua Riri “e la mancanza di energia elettrica ci costringeva a cucire alla scarsa luce del lume a petrolio: ogni tanto, per il calore, scoppiava il cilindro di vetro mentre lo stoppino era spesso sostituito da strisce di tessuto, avanzi del nostro lavoro. Durante il periodo della guerra, quando veniva scuro, dovevamo applicare stracci scuri alle imposte della serranda, per poter continuare a lavorare senza diventare un bersaglio dei ricognitori aerei.”
Agli inizi della loro carriera, le sartine cucivano un po’ per tutto il paese tuttavia esse ricordano come la bottega fosse frequentata dai signori dell’epoca, proprietari delle numerose villette della zona. Ai vestiti costruiti di sana pianta, per i più danarosi, si alternavano i più classici rimediotti: “Qualcuno ci portava il cappotto e ci chiedeva se era possibile rigirarlo, quindi noi si disfaceva completamente il capo, badando bene a recuperare la maggior parte del filo originale, e si rifaceva, identico, ma con la stoffa a rovescio.” Il recupero del filo da cucito originale aveva un duplice scopo: da una parte consentiva di risparmiare sui materiali, di per se scarsi, e dall’altra il filo nuovo poteva non avere una corrispondenza cromatica totale con il capo da cucire a discapito della riuscita della ricostruzione. E le toppe: sovente, specialmente ai ragazzi, si rattoppavano i
calzoni consumati sul sedere e chi era costretto ad indossarli camminava rasentando il muro per evitare il dileggio dei compagni, pronti ad attribuirgli il poco dignitoso soprannome di “pezze-ar-culo”. Per comprendere quanto poco fosse lo scarto di materiale, all’epoca, basti pensare che era necessario un anno intero per riempire un sacchetto di stracci per il cenciaio, mentre oggi è diventato così facile disfarsi degli abiti vecchi…
“Spesso mio zio ci consentiva di operare le consegne a domicilio dei lavori ultimati: durante il tragitto pregustavamo una mancia che il destinatario avrebbe potuto elargire, soprattutto in ragione della nostra giovane età, sennonché veniva spesso ad aprire la servitù ‘poi passa il padrone a bottega’, dicevano ed allora, addio mancia!”. Ricordano i vestiti confezionati per Di Rosa, il campione di scherma, per i quali si prestava la maggiore attenzione alla manica destra della giacca, quella che doveva ospitare l’arto maggiormente sviluppato dello sportivo.
“Nel ’45, dopo un lungo periodo d’oscuramento, con l’avvento degli Americani, lo zio riaprì la bottega e noi ritornammo all’attività sospesa. Gli americani avevano allestito il campo base in Bandinella, al didietro dell’attuale edicola, ed il paese pullulava di divise a stelle e strisce che, giocoforza, usufruivano dei nostri servigi. E lì dai: scorcia i calzoni, cuci la piega, stringi le camicie. “Gli Americani adoravano le camicie attillatissime e,” dice Riri “visto che la natura dei tessuti dell’epoca non consentiva di mantenere la piega delle gambe dei pantaloni, ci facevano risolvere il problema con una cucitura mediana per quanto era lunga ogni gamba.” Per quattro o cinque anni, i soldati d’oltreoceano hanno continuato a frequentare il negozio pagando un dollaro, corrispondente a circa cento lire dell’epoca (uno sproposito), per tutti i lavoretti più semplici.
All’unisono menzionano il nome di Alvaro (o chissà come si chiamava), un soldato di colore particolarmente ambizioso che frequentava il laboratorio al di là dell’effettiva necessità di usufruirne delle prestazioni. “Il militare parlava abbastanza correntemente l’italiano,” continuano alternandosi nel racconto dell’aneddoto “si sedeva accanto allo zio per conversare, poi prendeva una giacca a quadri dall’appendiabiti, un cappello tipo Borsalino, il bastone e si esibiva in bottega nella sua personalissima sfilata provocando in noi risate grasse.”
Con l’avvento degli americani, i civili approfittavano di materiali che saltuariamente essi elargivano e così bastava una coperta da campo per scatenare la fantasia delle sartine che, in men che non si dica, ne ricavavano un caldo cappotto. C’erano solo alcuni capi d’abbigliamento che mettevano in difficoltà le nostre artiste: la giacca sahariana, con tutti i suoi risvolti e le tasche con le pence, ed i pantaloni alla cavallerizza la cui bombatura sulle cosce era di difficile preparazione. “Ricordo di una volta in cui eravamo particolarmente soddisfatte per la realizzazione di un vestito da sposo, ma l’imprevisto era in agguato: chissà come, stavamo ammirando la nostra creazione quando ci rendemmo conto di un piccolo taglio alla sommità di una manica. In bottega eravamo tutti disperati e fummo costretti a rivolgerci alle suore, famose per la pazienza certosina nell’operare rammendi pressoché invisibili, che fecero un vero miracolo. La mattina successiva, lo sposo se ne andò all’altare felice e contento, ignaro del mancato disastro”.
E la paga? Poco più di niente! “Si segnavano le ore e le giornate sul foglio di un calendario per arrivare a riscuotere 30 centesimi o mezza lira che il lunedì, turno di riposo, come per i barbieri, dilapidavamo in un gelato di crema e cioccolato”.
“Sulla sera, la bottega si riempiva di gente a chiacchiera… a veglia, come suole dirsi. Gli uomini, di ritorno dal lavoro, si raccontavano barzellette, magari sporche, o facevano battutacce esclusive della loro condizione maschile: noi, dalla nostra postazione, origliavamo cercando di carpire le storielle tuttavia, in quanto donne… giovani donne, non ci era concesso partecipare all’intrattenimento”.
L’esperienza d’apprendiste è servita a far sbocciare, fra le due protagoniste, un’amicizia fino ad allora limitata alla pura conoscenza, quali abitanti del medesimo paese: frequentandosi sul lavoro si sono legate da un sentimento che a distanza di oltre sessant’anni è tutt’altro che scemato. Tempi di amicizia vera, quelli là!

Ermanno Volterrani


16 febbraio 2008