Quando Piera
Piram e Gino Chiapponi, ancora fidanzatini, misero piede per la prima volta
sulla pedana di legno dietro il banco N° 21 della macelleria al Mercato
Centrale, era da poco passata la guerra. Armando, il padre di Piera, proveniva
da una famiglia di affermati norcini, titolari di un’avviata attività in Piazza
dei Mille, e pensò bene di rendere i due giovani partecipi della nuova
coinvolgente avventura. Al vecchio Piram spetta la palma del primo assoluto in Toscana,
e Piera azzarda forse addirittura in Italia, ad importare carne di manzo e
vitello congelata dalla lontana Repubblica Argentina: una svolta per il modo di
pensare e, soprattutto, di mangiare delle famiglie appartenenti ad ogni classe
sociale. Con l’avvento di quel tipo di carne, dal prezzo decisamente più
abbordabile rispetto a quella fresca, anche chi era soggetto alle ristrettezze
economiche conseguenti al secondo
conflitto mondiale e, di conseguenza, ad una dieta più povera, poteva
permettersi una buona bistecca un po’ più di frequente.
“Lo smercio
della carne, di qualsiasi taglio, era talmente celere da non rendere necessario
l’utilizzo di un bancone congelatore,” – racconta Piera – “infatti abbiamo
acquistato il primo banco-frigo solo alla fine degli anni sessanta. Non si
faceva in tempo a metterla sul banco che spariva in men che non si dica. La
clientela era molto varia tuttavia i più danarosi approfittavano della carne
congelata per fare voluminose scorte laddove i meno abbienti riuscivano a
permettersi una bistecca o un pezzo di lesso in più”. Con l’idea della carne
congelata, il Piram servì da spunto ai macellai di tutta la Toscana che
approfittarono della novità per allestire giri d’affari a raggio sempre più ampio:
i più intraprendenti, come i Catalani di Figline Valdarno, imbastirono reti di
distribuzione ancor oggi sulla cresta dell’onda.
“Ognuno in
mercato aveva un soprannome:” – continua Piera – “Vitellone, Boccino, Veleno,
Ricciolo, Pipino, Cicci, Baceci… nessuno usava il nome di battesimo, a
testimonianza della grande famiglia di cui facevamo parte. Il mio Gino lo
chiamavano Sansone, appellativo nato allorché da ragazzo sfoggiava una
capigliatura folta e fluente, oltre ad un fisico davvero invidiabile, e se l’è
portato dietro finché non abbiamo lasciato l’attività”. Gino è stato un atleta
vecchio stampo, già Campione Italiano Militare dei 100 metri piani, della
classe “S” di Vela, atleta della compagine rugbistica labronica e, ciliegina
sulla torta, niente popò di meno che tedoforo in occasione delle Olimpiadi di
Roma del 1960. Piera tradisce un inevitabile moto di commozione, nel ricordare
il brillante passato agonistico del proprio consorte, della cui compagnia il
destino l’ha privata meno di otto mesi fa.
Prima
dell’alba i macellai scaricavano dai camion dei fornitori i quarti posteriori
interi, detti “pistole”, per la particolare conformazione, e subito
cominciavano a lavorare la carne. “Ci recavamo in bottega fin dalle quattro e
mezzo del mattino, per preparare le forniture per i ristoranti e le mense oltre
che per i clienti abituali il cui afflusso iniziava già verso le sette. Gino
era particolarmente abile nel taglio delle varie partiture di carne. La sua
particolare propensione consisteva nell’individuare sempre il fascio muscolare
giusto dopodichè, col coltello, praticava una piccola incisione nel quarto di
manzo impercettibilmente scongelato, ed infine a forza di scalpello e martello spartiva
i vari tagli. Con i pezzi duri come il marmo, individuare il verso giusto era
fondamentale. Solo negli anni settanta cominciammo ad importare i pezzi già
spartiti”. Si scioglie allorché rammenta l’abilità del consorte nel taglio
delle bistecche: due colpi opportunamente assestati alla lombata e la bistecca
cadeva sul massiccio tagliere di legno. “Era capace di colpi talmente precisi
che non si sbriciolava neanche l’osso e si poteva ricostruire la lombata
intera, riaccostando le bistecche appena tagliate”.
E che dire dei
“chiodi”? Più di un cliente accumulava piccoli debiti con la promessa di un
saldo che non sempre è ha avuto buon esito. “Un quadernetto nero conteneva la
lista degli inadempienti, ma non eravamo mai in pari: quello li prometteva,
quell’altro spariva dalla circolazione, un altro ancora doveva pagare il mutuo…
era più l’ammattimento a star dietro a chi ci doveva dei soldi del guadagno. Alla
fine, estrema ratio, decidemmo di azzerare la situazione: il libro nero finì
nella spazzatura e non concedemmo mai più credito a chicchessia”.
Ai tempi in
cui il Mercato Centrale era al massimo dello splendore, il sabato era il giorno
della settimana di maggior impegno, per i commercianti, cosicché il venerdì
veniva osservato orario continuato proprio per preparare la merce in previsione
del pienone del giorno successivo. All’ora di pranzo, immense tavolate accoglievano
tutti i protagonisti della giornata ed ognuno contribuiva per quello che era di
sua pertinenza: chi metteva la carne e chi il pesce, qualcuno pensava alla
pasta ed altri al sugo o al formaggio e la frutta ed il pranzo di venerdì
finiva per assumere i connotati di una ribotta vera e propria con tanto di
sfottò e baldoria come si trattasse di una festa. “I più ingordi si sfidavano a
chi mangiava di più adducendo stomaci dalle capacità infinite. Abbiamo visto
qualcuno che si è spolverato un intero chilo di pasta, per una sfida del
genere” – racconta Piera con un pizzico di malinconia per quei momenti di svago
ancorché alternati a faticosi ed impegnativi tour de force: “quando i film
erano in bianco e nero ed i sogni erano a colori”, come si è sentito dire da
qualcuno.
Una decina d’anni
fa i coniugi Chiapponi hanno pensato bene di godersi la conseguita pensione decretando,
di fatto, la cessazione dell’attività della Macelleria Piram: “Ora, al posto
della macelleria c’è una polleria”. – Conclude Piera – “Abbiamo lasciato a
malincuore, per certi versi, e solo la prospettiva della tranquillità ed il
meritato riposo, dopo cinquant’anni di onorato lavoro e molti sacrifici, ci ha
fatto compiere il passo definitivo”.
Ermanno
Volterrani, 12.04.2008