Beppe Orlandi |
“È già tre vorte ‘he sona la sirena,
siemo senza ‘arbone e nun c’è vino.
Anche stasera siemo senza cena,
si fa le ‘orse ‘ntorno ar tavolino”.
Così
inizia la commedia “Li sfollati”, insieme a “La ribotta a Montinero” il
capolavoro di Beppe Orlandi (e Gigi Benigni), con nonna Crolinda che rammenda
in cucina. Il genio e la potenza dell’autore-attore sono tutti racchiusi nelle
rime alternate di questa quartina. La disperazione figlia della guerra e la
conseguente mancanza di un minimo di sostentamento sono espresse in toni
farseschi che travalicano la drammaticità dell’evento provocando, nello
spettatore, irresistibili moti di riso.
Giuseppe Giovanni Pietro
Orlandi vede la luce il 24 agosto del 1998, alle tre del mattino, a Montenero
(o Montinero, come direbbe lui), in
Via della Lecceta, da Pilade e Concetta Evangelisti, sulle pendici di Monte
Burrone, ai margini della tenuta che circonda Villa Bella Vista, di proprietà
della duchessa Luisa Mangani Taddeoli, da cui si gode un incomparabile panorama
sulla città e sul nostro mare. Beppino si dimostra subito un bambino vivace, ma
più che vivace curioso, come lo definisce suo figlio Pier Luigi (in “Beppe
Orlandi: un livornese di Montenero in cinquant’anni di storia nostrana” – i
quaderni del vernacolo – Editrice Il Quadrifoglio per l’Associazione Lavoratori
Comunali). Si burla di tutto e di tutti e non esita a prendere in prestito,
dalle donne della cerchia famigliare e non solo, capi d’abbigliamento che
esaltino la propria presa in giro. Non è certo un assiduo frequentatore dei
banchi di scuola cosicché, presa la licenza di sesta classe all’Ardenza, e a
seguito delle necessità della famiglia, s’ingegna nella bottega di Arrigo
Gammanossi, abile forgiatore di metalli oltre che appassionato di teatro nonché
capace interprete e regista. Beppe entra così a far parte della Filodrammatica
Montenerse, acquisendo via-via dimestichezza con il palcoscenico e con
peculiarità oratorie e di comportamento che caratterizzeranno tutta la sua
esistenza di cittadino ed uomo di spettacolo. La parentesi del militare, dal
1918 al 1920, assume toni drammatici allorché si scopre affetto da poliartrite
acuta associata a complicazioni cardiache che lo costringeranno ad un lungo
periodo di parziale infermità e che gli frutteranno una pensione d’invalidità,
riconosciutagli dallo stato a seguito di non poche peripezie. Non che Beppe si
abbandoni al destino, anzi! Una volta congedato, viene assunto alla funicolare
di Montenero e si trova a lavorare con Oscarone, amico fidato di tante avventure.
A tale proposito, la figlia Lia ci ricorda un episodio (anch’esso citato nel
libro del fratello Pier Luigi) che merita di essere ricordato a testimonianza
della vis umoristica di Beppe anche negli
episodi della vita di tutti i giorni.
... con Mario der Riovero |
Così la raccontava il
protagonista: “Un giorno Oscar era di turno alla stazione superiore della
funicolare, in sala macchine. Io mi trovavo giù, sulla vettura che parte da
Piazza delle Carrozze. La vettura fece la solita fermata alla stazione di metà
salita, dove abita la famiglia Biasci. La moglie di Oscar, come fa di solito
con tutti, mi chiese di porgere il desinare a suo marito. Detti un’occhiata al
gamellino e ci trovai del baccalà sotto il pesto che faceva gola alla prima
annusata. Non ci pensai due volte: la vettura ripartì, mi adagiai comodamente
sulla panca e cominciai a spilluzzicare la pietanza. Un boccone tira l’altro e
quando fui in cima il pentolino era completamente vuoto. Lo chiusi con cura e,
assunta l’espressione di un innocentino, lo porsi ad Oscar. Lui l’aprì e,
diversamente dalla mia, la sua faccia si fece paonazza: faceva paura! Poi,
furbo come una volpe, disse: ‘te di certo non ne saprai niente!’. Prontamente,
per scagionarmi, balbettai: ‘ma scherzi?!’… la tanfata della ‘M’ fu fatale!
Bastò per fargli capire dov’era andato a finire il suo baccalà! Non vi dico
cosa sfulminò prima che tutto si risolvesse in una risata… al bar, dove, per
rimediare, partì il mio primo stipendio ancor prima di averlo riscosso!”.
Ecco lo spirito di colui che
coglie ogni sfumatura della vita di tutti i giorni e che ne fa spettacolo: il
suo teatro, le sue caratterizzazioni si basano sull’osservazione della
quotidianità, della popolana al mercato, del netturbino, del consumatore
assiduo di ponci o del becco di turno.
Tra uno spettacolo e
l’altro, Lia Orlandi racconta del primo vero incontro di calcio tra artisti, di
cui fu protagonista anche suo padre al Ginnasio nel dopo guerra, e rivive
volentieri una rappresentazione allestita, sempre al Gimnasio, in cui tra gli
interpreti, oltre a Beppe, spiccò Mario der ri’overo nella veste di un
improponibile neonato che, dall’interno di una carrozzina, sbirciava
all’esterno agghindato di cuffia trinata e succhiotto in bocca. Un’altra
fotografia mostra Lia, in giovane età, che reca a cavalluccio, proprio Mario
come fosse un ragazzino, a dispetto dell’età avanzata.
“Mio padre era un uomo
estremamente serio e rispettoso ed esigeva altrettanto rispetto in famiglia e
fuori.” Continua Lia “Per questo capitava di trovarsi in soggezione, nei suoi
confronti, benché non perdesse occasione per dimostrare la sua infinita bontà
d’animo. Non ha mai raccontato una barzelletta in casa come dire che la
devozione per la famiglia trasformava l’attore comico in un pilastro su cui
fare riferimento. Era innamoratissimo di mia madre (al secolo Zemira Iacopini) fin
dall’età infantile allorché vivevano in abitazioni adiacenti e l’attaccamento
di lei era tale da scatenare una gelosia quasi morbosa, ma che definirei
inevitabile, visto l’ambiente che lui frequentava; e pensare che egli non ha
mai tenuto un comportamento neanche lontanamente compromettente o quanto meno
tale da dare luogo a qualche maldicenza, con le donne che ha frequentato
durante tutta la carriera. Nel ’50 affiancò addirittura Sophia Loren nel film
‘Pellegrini d’amore’ (regia di Aldo Forzano) in cui interpretava la parte della
(manco a dirlo) cameriera! Hai voglia ad essere gelosa!”
...e con l'inseparabile Carlo Carpitelli |
I primi approcci di Lia con
la realtà del teatro, ovviamente a fianco del padre, risalgono ai suoi cinque
anni d’età allorché si esibì nella parte della strillozzina, figlia della Beppa, in una rappresentazione de “La
ribotta a Montinero”. “Tutta la famiglia collaborava con la Compagnia
Teatrale:” – ricorda Lia – “mio fratello Rodolfo impersonava Astarotte, Guido e
Pierluigi, invece, si esibivano con l’orchestra, l’uno alternava il clarinetto
alla batteria laddove l’altro suonava il pianoforte e tutte le canzoni e le
musiche non erano altro che parodie di motivi ben più noti. Mia madre, al
contrario, non ha mai voluto partecipare attivamente agli spettacoli, anche se
il babbo cercava spesso conforto nei suoi preziosi consigli. La mamma, poi, da
abile modellista e sarta qual era, forniva il proprio contributo confezionando
gli abiti e gli arredi di scena”.
Un pizzico di nostalgia emerge,
allorché Lia racconta delle trasferte della compagnia teatrale del babbo, tutte
all’insegna della serenità totale: “Eravamo una grande famiglia e, come tale,
ci muovevamo in blocco. Il viaggio degli attori era il viaggio delle famiglie
al completo: una vera e propria carovana. Quelle volte in cui, raramente, si
trovava in tournée da solo, in calce alle lettere che scriveva alla sua ‘Cocca’
(è così che mi ha sempre chiamato) trovavo le firme ed i saluti di tutti gli elementi
della compagnia”.
Lia spiega di aver avuto
delle lunghe pause, nella collaborazione col padre: dal precocissimo esordio si
passò direttamente all’età prematrimoniale in cui ella interpretava tutte le
parti della fidanzatina di scena cambiando partner ad ogni nuovo ciclo di rappresentazioni.
Il matrimonio con Ettore Favilla ed il conseguente trasferimento a Milano, per
questioni di lavoro proprio del marito, segnarono l’inizio della pausa più
lunga: Lia si dedicò completamente alla famiglia, nonostante non abbia mai
smesso di seguire le attività della Compagnia Teatrale con cui il padre ed i
fratelli continuavano a mietere successi in Toscana ed in ogni parte della
penisola. Il successivo trasferimento a Pontedera, a seguito del nuovo lavoro
del marito presso la Piaggio, avrebbe potuto riavvicinare Lia alla recitazione,
ma non fu così: preferì continuare nell’attività di amabile moglie e madre.
Si commuove nel raccontare
la tristissima circostanza che la vide impotente protagonista il 13 agosto del
‘63: “Venne a trovarci Carlo Carpitelli e babbo lo accolse con il solito
entusiasmo. Seduti sul divano, ad una battuta di Carpitelli cominciammo tutti a
ridere sennonché mio padre mi si adagiò in grembo con gli occhi
inaspettatamente sgranati. Non avevo il coraggio di tastargli il polso, temendo
che fosse successo l’irreparabile, ma mi venne istintivo chiudergli gli occhi
affinché non si rendesse conto della mia sofferenza di quel momento. Non fece
in tempo a compiere i sessantacinque anni: avrebbe ricevuto la prima pensione
entro la fine del mese in corso dopo una vita da impiegato alle poste”. Fu
quella l’occasione che riportò Lia a condividere con la madre l’abitazione di
Livorno a discapito del marito, costretto a fare il pendolare, che comunque
accettò di buon grado. Da quel fatidico 13 agosto, i lavori di Beppe Orlandi
sono finiti nell’ampia soffitta della casa di Via San Giovanni e nessuno li ha
mai fatti riemergere finché “a mio figlio Stefano” – riprende – “non venne
voglia di frequentare un corso di chitarra con il nipote di Carpitelli e,
insieme, organizzarono un’esibizione presso il teatrino di una congregazione
monastica con sede di fronte ai Bagni Pancaldi. Una sera, di ritorno dalla
lezione di musica, espresse l’intenzione d’interpretare qualcosa del nonno
durante quell’esibizione. Nessuno aveva più menzionato i lavori di mio padre e
ci stupimmo che il ragazzo ne fosse a conoscenza. Ci confessò di essersi recato
più volte in soffitta e di aver consultato i manoscritti del nonno imparandone
a memoria diversi brani. Dopo un sommario e casalingo provino, giusto per
saggiare il livello di preparazione dell’aspirante attore, la famiglia decise
di dare libero sfogo ai desideri del ragazzo che conseguì un successo
strepitoso. Io provai un’emozione particolare nel riconoscere, in lui, mio padre
nei primi anni della carriera”.
Lia è adesso direttrice
artistica della Compagnia Teatrale “Beppe Orlandi”, nata dall’entusiasmo
scaturito a seguito di quella fortunata esibizione, ed ha esordito al Teatro
Quattro Mori con la commedia “Li sfollati” in occasione della prima edizione di
“Effetto Venezia”, a luglio del 1986: nonostante l’esibizione al chiuso, si
registrò il tutto esaurito. Lia continua a rappresentare con grande entusiasmo
e soddisfazione i lavori del padre anche se le difficoltà gestionali del
sodalizio non sono da poco: “La nostra compagnia teatrale, in pratica, non ha
sede se non a casa mia.” – C’informa – “Non abbiamo un teatro o anche
semplicemente una sala grande abbastanza da consentire di ritrovarci per le
prove delle nostre rappresentazioni.
Siamo costretti a provare a gruppi, spesso a casa mia, per poi
amalgamarci all’ultimo momento. Per l’ultima rappresentazione de “Li sfollati”
al Goldoni il 26 e 27 dicembre scorsi, per esempio, il teatro ci è stato messo
a disposizione, in tutto, per sole tre serate: la prima per assemblare le
scene, la seconda per provare le luci e la terza per le prove generali.
Nient’altro! È improponibile continuare a lavorare in queste condizioni tanto è
vero che la programmazione de “La ribotta a Montinero”, prevista per il
prossimo dicembre, rischia di saltare proprio per mancanza di spazi in cui
confrontarci ed amalgamare i componenti della compagnia, ben 50 elementi in
tutto.”
Lia spiega come non esista
un ricovero per i fondali e gli arredi di scena: “Tutto il materiale
dell’ultima commedia è rimasto al Teatro Goldoni e quello degli altri lavori è
temporaneamente ricoverato presso i magazzini del Teatro Granguardia, per
gentile concessione del proprietario, ma non sarà sempre così. Il giorno in cui
i depositi del teatro dovranno essere liberati non so davvero dove potremmo
ricoverare la nostra attrezzatura”.
La direttrice ha mostrato reale
delusione, al limite dello sconforto, nel descrivere la scarsissima
disponibilità delle strutture precostituite nel cercare di mantenere vivo un
patrimonio del bagaglio culturale ed artistico della nostra città e perdere un
così importante tesoro della tradizione vernacolare labronica sarebbe davvero
un sacrilegio.
Già adesso molti giovani
ignorano il ruolo del personaggio a cui è stata intitolato quel tratto di
strada che da Via Goito porta a Via S. Jacopo in Acquaviva e se l’oblio finirà
per inghiottire anche gli ultimi tentativi di rivalutare gli artefici del
nostro passato, sempre più se ne dimenticheranno.
Vogliamo trovargliela una
sistemazione adeguata o no?
Ermanno Volterrani,
29.04.2008