domenica 13 maggio 2012

la favola di Ercole Labrone

La favola di Ercole Labrone

C’era una volta… Beh! Quante favole iniziano così? E perché non principiare con la medesima formula anche la favola della nostra bella città? Da capo!
C’era una volta una famiglia che si trovava a veleggiare sulla propria barca per il Mar Tirreno, proveniente da sud, alla ricerca di terra da riattare. Il vento e le onde portarono padre, madre ed il giovane figlio ad un luogo che appariva inospitale per le paludi, gli acquitrini e la desolazione che regnavano vicino alla costa; un’esplorazione più attenta delle colline e dei terreni dislocati più all’interno, tuttavia, rivelò un clima decisamente mite, la terra era giusta e prometteva di poter dare buoni frutti. Decisero allora di piantare olivi ed oleandri che curarono amorevolmente sennonché, avvicinandosi il tempo della maturazione, i tre furono costretti a far ritorno ai propri lidi abbandonando quella terra che cominciavano ad amare ma che disperavano di poter rivedere in futuro.
Al ritorno, godevano il clima mite della loro bella terra, ricca di fiori, piante e frutti, tuttavia spesso i ricordi andavano al lido selvaggio e specialmente il figlio, di nome Ercole, soprannominato Labrone per le labbra voluminose, spesso si chiedeva se gli alberelli piantati con tanto amore avessero attecchito e fossero cresciuti. Con nostalgia, Ercole si ricordava di mattine fresche e limpide, dell’azzurro del mare e del verde dei boschi, di tramonti infuocati e di notti tranquille e spesso veniva sopraffatto dalla commozione. Col passare degli anni, Ercole si fece un omone grande e grosso, forte e robusto ma sempre col chiodo fisso di quella terra, tanto meravigliosa quanto poco goduta, al punto che decise di prendere nuovamente il mare con la propria barchetta a vela. A seguito dei favorevoli presagi delle donne del villaggio, Ercole si mise in viaggio senza che i genitori lo distogliessero dai propri propositi. La traversata si mostrò più ardua del previsto ed Ercole, pur scrutando attentamente le coste del continente, non riuscì a scorgere nulla che gli ricordasse il suo bel lido. Imperterrito resistette a procellose tempeste e si sfinì al remo quand’era bonaccia finché un giorno, con la vela allo scirocco, fu assalito dallo sconforto e si adagiò a poppa dell’imbarcazione che si muoveva sull’onda lunga. Preso da un senso d’abbandono ed in preda alla spossatezza per le lunghe giornate trascorse senza riposo, Ercole incrociò le braccia dietro la testa e, sfinito, si addormentò.
Al risveglio, la brezza di maestrale aveva preso il sopravvento e la barca filava via imperterrita fendendo le onde di un azzurro limpidissimo. Dopo ore o forse giorni di navigazione serena in quell’incanto, finalmente Ercole riconobbe, in lontananza, l’agognate sponde dove gli olivi erano carichi di frutti e gli oleandri erano tutti in fiore, gli acquitrini splendevano al sole e le tamerici coronavano la spiaggia. Egli sbarcò e, come avvolto da un luminoso silenzio, ascoltò il Signore, che solo lui era in grado di udire, ordinargli di scavare canali che dal mare partissero e ad esso ritornassero per bonificare la terra. Il Signore gli esternò il presagio di una vita estremamente travagliata ma dalle soddisfazioni enormi: gli predisse che avrebbe fondato una grande città e che il suo nome sarebbe stato ricordato nei secoli. Gli fornì una clava robusta per difendersi, una zappa per dissodare la terra e gli ordinò di darsi da fare immediatamente che Lui lo avrebbe seguito e guidato.
Ercole era solo un puntino tuttavia splendente in mezzo a quella landa assolutamente deserta; mentre le onde del mare frangevano sugli scogli, le cicale presero a cantare come per incoraggiarlo in quell’impresa eccezionale e lui, finalmente giunto alla terra per lungo tempo sognata, affondò la zappa nel terreno dando così inizio alla sua sovrumana fatica.
            Il lavoro che l’eroe aveva principiato era di proporzioni enormi e bonificare le paludi dove svolazzavano zanzare e nugoli d’altri insetti portatori di malattie e miasmi pestiferi si rivelò irto di difficoltà. Il Signore pensò di dare una mano al prode pioniere e, dalla Libia, prelevò un forte vento che purificò l’aria di quelle mefitiche paludi: per la sua provenienza, Ercole chiamò quel vento “Libiecio”.
Per i successivi cento anni, con gran compiacimento del Signore, Ercole lavorò duramente costruendo i canali comunicanti tra loro che gli erano stati ordinati; la terra si rinsaldava e, come premio per la costanza e la perseveranza, cominciava a dare i propri frutti. Alla fine, stanco per il lunghissimo, duro e solitario impegno, si abbandonò ad un’accorata preghiera che il Signore accolse prontamente inviandogli braccia forti che lo aiutassero a sbrigare le proprie faccende. Fu così che un giorno giunse in quella terra un omino chiamato Cicala, il giorno appresso un omicciòlo soprannominato Gallinella, quello dopo ancora un omiciattolo detto Gattuccio, poi un omaccio chiamato Polpo, indi un omaccino nominato Grongo e, l’ultimo giorno, un omaccione detto Scorpano. Una caratteristica accomunava tutti quegli individui: avevano i capelli rapati a zero e non poterono nascondere, ancorché inviati dal Signore, di essere recentemente evasi di galera. Al successivo levar del sole, il settimo, Ercole pregò che non arrivassero altri collaboratori e che il Signore provvedesse affinché le prigioni fossero vigilate con maggior attenzione. Accontentato nei propri desideri, con tanto di clava, Ercole obbligò i sei aiutanti a collaborare alla bonifica ed al recupero della zona finché, dopo un altro periodo di duro lavoro, egli morì alla bella età di centotrentuno anni suonati. Gli strampalati assistenti seppellirono il proprio capomastro con tutti gli onori ed edificarono in suo onore un grande tempio che fu battezzato Tempio di Labrone.
Così come aveva a suo tempo condizionato la volontà di Ercole, il Signore fece in modo che i sei ex carcerati andassero d’amore e d’accordo ed ordinò loro di costruire un castello nelle vicinanze della tomba e del tempio e così fecero. Il castello era quadrato ed imponente, equipaggiato con alte torri merlate e l’accesso era garantito da una gran porta che dava proprio sulla battigia. Con castello e tempio il lido inospitale stava assumendo i connotati di un villaggio ed il signore decise di chiamarlo Villaggio di Labrone cosicché gli unici sei abitanti, dopo la dipartita del patriarca, vennero chiamati Labronici. Pensando a migliorie da apportare al villaggio, il Gattuccio un giorno disse di aver visto, in oriente, un castello sul cui portone spiccava, a caratteri cubitali d’oro, la scritta “Conosci te stesso” e propose agli altri di apporre a loro volta un motto sulla porta del castello. Pensa che ti ripensa la scritta “di Labron son nato” apparve la più adatta cosicché ne forgiarono i caratteri cubitali in bronzo e l’applicarono proprio nel mezzo del portale.
Per niente stupito, il Signore apprezzò l’orgoglio dei Labronici e fece in modo e maniera che un’ispirazione li stimolasse a cucinare una pietanza che lasciasse il segno anche nel futuro più anteriore. I sei ex avanzi di galera, ormai pentiti ed ampiamente redenti, in un grande tegame misero a soffriggere e rosolare a puntino dell’olio d’oliva, del sale, della salvia e dell’aglio freschissimo tritato, poi aggiunsero acqua quanto basta e molto pomodoro a pezzi, pepe ed abbondante zenzero finché, quando la salsa fu ritirata ben bene, vi buttarono polpi, gattucci e gronghi tagliati a pezzi e scorpani, gallinelle e cicale interi, facendo cuocere il tutto a fuoco lentissimo, affinché s’insaporisse appropriatamente. Infine abbrustolirono diverse fette di pane che aromatizzarono strusciandoci freschi spicchi d’aglio. Misero il pane sul fondo di un catino che riempirono con il brodo di pesce appena cucinato poi pregarono il Signore per il cibo ricevuto e mangiarono con gusto la zuppa così ottenuta. Trovarono la zuppa tanto gustosa e forte quanto lo era stato il loro patriarca e quanto lo erano loro che pronunciarono un eloquente discorso: “Come dall’insieme di questi rozzi pesci è sortito un buon piatto, così da noi (in origine accozzaglia di poco di buono) verrà la bella cosa voluta dal Cielo e sulla terra del nostro Villaggio, cogli anni, crescerà una gran pianta”. Fu decretato che quello sarebbe stato il loro prelibato piatto delle ricorrenze e del ricordo che i loro figli ed i figli dei loro figli avrebbero mangiato nei secoli dei secoli. I Labronici si strinsero la mano destra in segno d’amicizia, alleanza e reciproca fedeltà e decisero di chiamare quella vivanda piccante col nome di “Cacciucco”.
Il Signore apprezzò molto l’iniziativa e la solennità del momento e decise d’inviare ai Labronici delle donne affinché si accoppiassero e si moltiplicassero in fretta finché il villaggio originario non fu più in grado di accoglierli tutti. Si fecero opere d’ampliamento e nuove costruzioni ed il complesso così ottenuto fu chiamato “Castello di Livorno” cosicché, da allora, gli abitanti furono detti Livornesi. La terra sempre più continuava a produrre abbondanti frutti e le acque dei canali scavati da Ercole Labrone costituivano un’abbondante risorsa di pesca oltre che importanti vie di passaggio.
Il Signore, soddisfatto dell’operato dei Livornesi, li guardò con occhio benevolo.

Liberamente tratto da “Livorno Nostra” di Gastone Razzaguta, Editrice Nuova Fortezza.

Ermanno Volterrani, 22.03.2008