lunedì 19 dicembre 2016

Beppe Orlandi

Beppe Orlandi
Beppe Orlandi

“È già tre vorte ‘he sona la sirena,
siemo senza ‘arbone e nun c’è vino.
Anche stasera siemo senza cena,
si fa le ‘orse ‘ntorno ar tavolino”.

            Così inizia la commedia “Li sfollati”, insieme a “La ribotta a Montinero” il capolavoro di Beppe Orlandi (e Gigi Benigni), con nonna Crolinda che rammenda in cucina. Il genio e la potenza dell’autore-attore sono tutti racchiusi nelle rime alternate di questa quartina. La disperazione figlia della guerra e la conseguente mancanza di un minimo di sostentamento sono espresse in toni farseschi che travalicano la drammaticità dell’evento provocando, nello spettatore, irresistibili moti di riso.
Giuseppe Giovanni Pietro Orlandi vede la luce il 24 agosto del 1998, alle tre del mattino, a Montenero (o Montinero, come direbbe lui), in Via della Lecceta, da Pilade e Concetta Evangelisti, sulle pendici di Monte Burrone, ai margini della tenuta che circonda Villa Bella Vista, di proprietà della duchessa Luisa Mangani Taddeoli, da cui si gode un incomparabile panorama sulla città e sul nostro mare. Beppino si dimostra subito un bambino vivace, ma più che vivace curioso, come lo definisce suo figlio Pier Luigi (in “Beppe Orlandi: un livornese di Montenero in cinquant’anni di storia nostrana” – i quaderni del vernacolo – Editrice Il Quadrifoglio per l’Associazione Lavoratori Comunali). Si burla di tutto e di tutti e non esita a prendere in prestito, dalle donne della cerchia famigliare e non solo, capi d’abbigliamento che esaltino la propria presa in giro. Non è certo un assiduo frequentatore dei banchi di scuola cosicché, presa la licenza di sesta classe all’Ardenza, e a seguito delle necessità della famiglia, s’ingegna nella bottega di Arrigo Gammanossi, abile forgiatore di metalli oltre che appassionato di teatro nonché capace interprete e regista. Beppe entra così a far parte della Filodrammatica Montenerse, acquisendo via-via dimestichezza con il palcoscenico e con peculiarità oratorie e di comportamento che caratterizzeranno tutta la sua esistenza di cittadino ed uomo di spettacolo. La parentesi del militare, dal 1918 al 1920, assume toni drammatici allorché si scopre affetto da poliartrite acuta associata a complicazioni cardiache che lo costringeranno ad un lungo periodo di parziale infermità e che gli frutteranno una pensione d’invalidità, riconosciutagli dallo stato a seguito di non poche peripezie. Non che Beppe si abbandoni al destino, anzi! Una volta congedato, viene assunto alla funicolare di Montenero e si trova a lavorare con Oscarone, amico fidato di tante avventure. A tale proposito, la figlia Lia ci ricorda un episodio (anch’esso citato nel libro del fratello Pier Luigi) che merita di essere ricordato a testimonianza della vis umoristica di Beppe anche negli episodi della vita di tutti i giorni.
... con Mario der Riovero
Così la raccontava il protagonista: “Un giorno Oscar era di turno alla stazione superiore della funicolare, in sala macchine. Io mi trovavo giù, sulla vettura che parte da Piazza delle Carrozze. La vettura fece la solita fermata alla stazione di metà salita, dove abita la famiglia Biasci. La moglie di Oscar, come fa di solito con tutti, mi chiese di porgere il desinare a suo marito. Detti un’occhiata al gamellino e ci trovai del baccalà sotto il pesto che faceva gola alla prima annusata. Non ci pensai due volte: la vettura ripartì, mi adagiai comodamente sulla panca e cominciai a spilluzzicare la pietanza. Un boccone tira l’altro e quando fui in cima il pentolino era completamente vuoto. Lo chiusi con cura e, assunta l’espressione di un innocentino, lo porsi ad Oscar. Lui l’aprì e, diversamente dalla mia, la sua faccia si fece paonazza: faceva paura! Poi, furbo come una volpe, disse: ‘te di certo non ne saprai niente!’. Prontamente, per scagionarmi, balbettai: ‘ma scherzi?!’… la tanfata della ‘M’ fu fatale! Bastò per fargli capire dov’era andato a finire il suo baccalà! Non vi dico cosa sfulminò prima che tutto si risolvesse in una risata… al bar, dove, per rimediare, partì il mio primo stipendio ancor prima di averlo riscosso!”.
Ecco lo spirito di colui che coglie ogni sfumatura della vita di tutti i giorni e che ne fa spettacolo: il suo teatro, le sue caratterizzazioni si basano sull’osservazione della quotidianità, della popolana al mercato, del netturbino, del consumatore assiduo di ponci o del becco di turno.
Tra uno spettacolo e l’altro, Lia Orlandi racconta del primo vero incontro di calcio tra artisti, di cui fu protagonista anche suo padre al Ginnasio nel dopo guerra, e rivive volentieri una rappresentazione allestita, sempre al Gimnasio, in cui tra gli interpreti, oltre a Beppe, spiccò Mario der ri’overo nella veste di un improponibile neonato che, dall’interno di una carrozzina, sbirciava all’esterno agghindato di cuffia trinata e succhiotto in bocca. Un’altra fotografia mostra Lia, in giovane età, che reca a cavalluccio, proprio Mario come fosse un ragazzino, a dispetto dell’età avanzata.
“Mio padre era un uomo estremamente serio e rispettoso ed esigeva altrettanto rispetto in famiglia e fuori.” Continua Lia “Per questo capitava di trovarsi in soggezione, nei suoi confronti, benché non perdesse occasione per dimostrare la sua infinita bontà d’animo. Non ha mai raccontato una barzelletta in casa come dire che la devozione per la famiglia trasformava l’attore comico in un pilastro su cui fare riferimento. Era innamoratissimo di mia madre (al secolo Zemira Iacopini) fin dall’età infantile allorché vivevano in abitazioni adiacenti e l’attaccamento di lei era tale da scatenare una gelosia quasi morbosa, ma che definirei inevitabile, visto l’ambiente che lui frequentava; e pensare che egli non ha mai tenuto un comportamento neanche lontanamente compromettente o quanto meno tale da dare luogo a qualche maldicenza, con le donne che ha frequentato durante tutta la carriera. Nel ’50 affiancò addirittura Sophia Loren nel film ‘Pellegrini d’amore’ (regia di Aldo Forzano) in cui interpretava la parte della (manco a dirlo) cameriera! Hai voglia ad essere gelosa!”
...e con l'inseparabile Carlo Carpitelli
I primi approcci di Lia con la realtà del teatro, ovviamente a fianco del padre, risalgono ai suoi cinque anni d’età allorché si esibì nella parte della strillozzina, figlia della Beppa, in una rappresentazione de “La ribotta a Montinero”. “Tutta la famiglia collaborava con la Compagnia Teatrale:” – ricorda Lia – “mio fratello Rodolfo impersonava Astarotte, Guido e Pierluigi, invece, si esibivano con l’orchestra, l’uno alternava il clarinetto alla batteria laddove l’altro suonava il pianoforte e tutte le canzoni e le musiche non erano altro che parodie di motivi ben più noti. Mia madre, al contrario, non ha mai voluto partecipare attivamente agli spettacoli, anche se il babbo cercava spesso conforto nei suoi preziosi consigli. La mamma, poi, da abile modellista e sarta qual era, forniva il proprio contributo confezionando gli abiti e gli arredi di scena”.
Un pizzico di nostalgia emerge, allorché Lia racconta delle trasferte della compagnia teatrale del babbo, tutte all’insegna della serenità totale: “Eravamo una grande famiglia e, come tale, ci muovevamo in blocco. Il viaggio degli attori era il viaggio delle famiglie al completo: una vera e propria carovana. Quelle volte in cui, raramente, si trovava in tournée da solo, in calce alle lettere che scriveva alla sua ‘Cocca’ (è così che mi ha sempre chiamato) trovavo le firme ed i saluti di tutti gli elementi della compagnia”.
Lia spiega di aver avuto delle lunghe pause, nella collaborazione col padre: dal precocissimo esordio si passò direttamente all’età prematrimoniale in cui ella interpretava tutte le parti della fidanzatina di scena cambiando partner ad ogni nuovo ciclo di rappresentazioni. Il matrimonio con Ettore Favilla ed il conseguente trasferimento a Milano, per questioni di lavoro proprio del marito, segnarono l’inizio della pausa più lunga: Lia si dedicò completamente alla famiglia, nonostante non abbia mai smesso di seguire le attività della Compagnia Teatrale con cui il padre ed i fratelli continuavano a mietere successi in Toscana ed in ogni parte della penisola. Il successivo trasferimento a Pontedera, a seguito del nuovo lavoro del marito presso la Piaggio, avrebbe potuto riavvicinare Lia alla recitazione, ma non fu così: preferì continuare nell’attività di amabile moglie e madre.
Si commuove nel raccontare la tristissima circostanza che la vide impotente protagonista il 13 agosto del ‘63: “Venne a trovarci Carlo Carpitelli e babbo lo accolse con il solito entusiasmo. Seduti sul divano, ad una battuta di Carpitelli cominciammo tutti a ridere sennonché mio padre mi si adagiò in grembo con gli occhi inaspettatamente sgranati. Non avevo il coraggio di tastargli il polso, temendo che fosse successo l’irreparabile, ma mi venne istintivo chiudergli gli occhi affinché non si rendesse conto della mia sofferenza di quel momento. Non fece in tempo a compiere i sessantacinque anni: avrebbe ricevuto la prima pensione entro la fine del mese in corso dopo una vita da impiegato alle poste”. Fu quella l’occasione che riportò Lia a condividere con la madre l’abitazione di Livorno a discapito del marito, costretto a fare il pendolare, che comunque accettò di buon grado. Da quel fatidico 13 agosto, i lavori di Beppe Orlandi sono finiti nell’ampia soffitta della casa di Via San Giovanni e nessuno li ha mai fatti riemergere finché “a mio figlio Stefano” – riprende – “non venne voglia di frequentare un corso di chitarra con il nipote di Carpitelli e, insieme, organizzarono un’esibizione presso il teatrino di una congregazione monastica con sede di fronte ai Bagni Pancaldi. Una sera, di ritorno dalla lezione di musica, espresse l’intenzione d’interpretare qualcosa del nonno durante quell’esibizione. Nessuno aveva più menzionato i lavori di mio padre e ci stupimmo che il ragazzo ne fosse a conoscenza. Ci confessò di essersi recato più volte in soffitta e di aver consultato i manoscritti del nonno imparandone a memoria diversi brani. Dopo un sommario e casalingo provino, giusto per saggiare il livello di preparazione dell’aspirante attore, la famiglia decise di dare libero sfogo ai desideri del ragazzo che conseguì un successo strepitoso. Io provai un’emozione particolare nel riconoscere, in lui, mio padre nei primi anni della carriera”.
Lia è adesso direttrice artistica della Compagnia Teatrale “Beppe Orlandi”, nata dall’entusiasmo scaturito a seguito di quella fortunata esibizione, ed ha esordito al Teatro Quattro Mori con la commedia “Li sfollati” in occasione della prima edizione di “Effetto Venezia”, a luglio del 1986: nonostante l’esibizione al chiuso, si registrò il tutto esaurito. Lia continua a rappresentare con grande entusiasmo e soddisfazione i lavori del padre anche se le difficoltà gestionali del sodalizio non sono da poco: “La nostra compagnia teatrale, in pratica, non ha sede se non a casa mia.” – C’informa – “Non abbiamo un teatro o anche semplicemente una sala grande abbastanza da consentire di ritrovarci per le prove delle nostre rappresentazioni.  Siamo costretti a provare a gruppi, spesso a casa mia, per poi amalgamarci all’ultimo momento. Per l’ultima rappresentazione de “Li sfollati” al Goldoni il 26 e 27 dicembre scorsi, per esempio, il teatro ci è stato messo a disposizione, in tutto, per sole tre serate: la prima per assemblare le scene, la seconda per provare le luci e la terza per le prove generali. Nient’altro! È improponibile continuare a lavorare in queste condizioni tanto è vero che la programmazione de “La ribotta a Montinero”, prevista per il prossimo dicembre, rischia di saltare proprio per mancanza di spazi in cui confrontarci ed amalgamare i componenti della compagnia, ben 50 elementi in tutto.”
Lia spiega come non esista un ricovero per i fondali e gli arredi di scena: “Tutto il materiale dell’ultima commedia è rimasto al Teatro Goldoni e quello degli altri lavori è temporaneamente ricoverato presso i magazzini del Teatro Granguardia, per gentile concessione del proprietario, ma non sarà sempre così. Il giorno in cui i depositi del teatro dovranno essere liberati non so davvero dove potremmo ricoverare la nostra attrezzatura”.
La direttrice ha mostrato reale delusione, al limite dello sconforto, nel descrivere la scarsissima disponibilità delle strutture precostituite nel cercare di mantenere vivo un patrimonio del bagaglio culturale ed artistico della nostra città e perdere un così importante tesoro della tradizione vernacolare labronica sarebbe davvero un sacrilegio.
Già adesso molti giovani ignorano il ruolo del personaggio a cui è stata intitolato quel tratto di strada che da Via Goito porta a Via S. Jacopo in Acquaviva e se l’oblio finirà per inghiottire anche gli ultimi tentativi di rivalutare gli artefici del nostro passato, sempre più se ne dimenticheranno.
Vogliamo trovargliela una sistemazione adeguata o no?


Ermanno Volterrani, 29.04.2008

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